Chiudi gli occhi e apri la bocca

Che il mondo stia impazzendo intorno al cibo è un fatto noto.

Ma quanto stia impazzendo veramente, noi ancora non lo sappiamo veramente. È come quando ti dicono che il cervello ha delle potenzialità immense, che ne usiamo solo il cinque percento.

Lo stesso con l’economia che gravita intorno al cibo.

Siamo solo all’inizio.

In realtà, come per gli studi sulla mente, che sono segreti e vengono divulgati solo anni e anni dopo, dopo decine e centinaia di esperimenti sulla mente individuale e collettiva, la stessa cosa avviene per le cose che si mangiano e si bevono.

Ci stiamo lentamente incamminando verso una dittatura del gusto, accompagnati con determinazione e forchette da personaggi dal volto noto e rassicurante, guru del palato che sanno come prenderci, che hanno fatto della papilla il nuovo punto G e hanno riportato la gola profonda al suo primitivo significato: il cannarozzo.

Ho visto tardone e adolescenti accalcarsi e prendersi a gomitate per raggiungere improbabili e minuscoli piani cottura dove ad animare gli show cooking c’erano sex symbol culinari. Knam, Cannavacciuolo e altri di cui ignoro i nomi. Adolescenti, donne mature e nonne accomunate da identica passione: l’arte di manipolare il cibo. Che secondo me rimane pur sempre una metafora. Sensuale, ma non solo. Chi manipola il cibo manipola vita e morte, nutre o uccide.

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Sono appena rientrata da Pollenzo, provincia di Cuneo, un posto bellissimo in cui sorge l’Agenzia di Pollenzo, il centro nevralgico da cui partiranno, armate di papille supersensibili, le nuove milizie del gusto, pronte a colonizzare il mondo in nome del sapore, dell’aroma, dell’organolettico. Milizie scelte, formate all’uopo, lungamente addestrate. E insieme a loro assaggiatori volontari, la falange dei mercenari sensoriali, disposti a tutto pur di muovere le mascelle, attivare ghiandole salivari e dire la loro sul tannico, l’aspro e l’agrodolce. Perché il Giudizio Universale non separerà i giusti dai malvagi, no. Separerà i buongustai dai malgustai, gli epigoni della qualità dagli adepti del fast food e li sistemerà in appositi gironi di un aldilà gastronomico, dove le fiamme eterne faranno girare a fuoco lento gli spiedi del girarrosto per i buoni, mentre gli incompetenti saranno condannati per l’eternità a mangiare maionese in tubetto e dadi da brodo.

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Come recita il sito, l’importo per la retta dell’anno accademico 2015/2016, è pari a 14mila euro e comprende – nientedimeno – anche l’accesso alla rete wi-fi.

Una laurea triennale costa 42mila euro, escluso l’alloggio, ma ti permette di accedere a posizioni di straordinario prestigio.

Mi informo sulle competenze: non sono cuochi, per quanto li abbia visti in cucina, con cappello da chef, a testare i punti di fusione di tutti i grassi alimentari, non sono tecnologi, per quanto conoscano la composizione di tutti i cibi, non sono export manager, per quanto il ciclo di studi li porti a frequenti contatti con i mercati esteri, non sono nutrizionisti, per quanto conoscano i nutrictional fact di qualunque cosa venga a contatto con le mucose buccali.

Sono i futuri food blogger, i futuri storyteller del food and beverage. Perché è il Verbo, che crea il mondo, è la Parola. E la parola sul cibo crea il cibo e sfama il pianeta. Expo2015 docet.

A Pollenzo conosco Mohamed, sommelier del Mali, graduated student, che mi porta in giro a visitare la Banca del Vino e che testimonia della compagine internazionale del campus. E con lui Julie, che dall’accento decido irlandese, che mi porta a vedere i laboratori.

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I laboratori.

Sono delle postazioni dotate di un lavandino, uno schermo al plasma e una tastiera, un diffusore di odori e luci fluo che confondono e mutano le sfumature dei vini, degli oli, per squarciare il velo di Maya della percezione visiva e pervenire a una verità multisensoriale, alla Verità ultima del gusto.

Perché la questione è proprio questa: formare al gusto. E che il gusto sia univoco, uniformemente diffuso.

Per raggiungere questo obiettivo si inizia con la codifica dell’essenziale: boccette che contengono l’asprezza, la dolcezza, l’amarezza, il salato eccetera vengono somministrate a ciascuno studente e studiate nella loro assolutezza. Dove impattano, su quali parti della lingua, in quali angoli del palato risuonano, quali profondità gustative attivano. Tutta un’educazione al come un determinato gusto vada percepito e sentito.

Poi c’è la prova, l’esercizio. Per ciascun gusto esplorato vengono forniti allo studente cibi e bevande che riportino quel gusto come caratteristica peculiare. Per l’amaro possiamo pensare alla birra, ai carciofi, al caffè, alle melenzane.

Per ogni cibo o bevanda lo zelante e superpagante studente attribuirà un valore su una scala, di modo che, alla fine del cursus studiorum tutti, che siano cinesi, neozelandesi o congolesi, sappiano come situare esattamente un sapore, una sensazione papillare e olfattiva. Immaginate tutto quello che avete sentito dire ai sommelier dell’ultimo decennio, ma elevato all’ennesima potenza e applicato a tutto lo scibile mangereccio.

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Ci troviamo di fronte alla globalizzazione globale. All’omologazione totale.

Il penultimo passaggio era stato rappresentato dagli interventi sul corpo, dalla pornografia, dalla catalogazione precisa e maniacale delle pratiche sessuali esistenti, in modo da definire categorie di utenti e su quelle edificare nuove predilezioni, create a tavolino: vulve chirurgicamente rimodellate, ani sbiancati, seni esorbitanti.

L’ultimo grado dell’omologazione riguarda il cibo, l’essenziale costitutivo di qualunque cultura.

Dove non è riuscito McDonald ci riuscirà l’Authentic Italian (o French o German o quel che volete voi) Food: una tipicità standardizzata, identificativa di uno stare a tavola di qualità.

E’ una deriva inevitabile. Sono mesi che osservo il proliferare di questi festival dello Street food, del diffondersi del franchising dei foodtruck, del propagarsi di Eataly, da Pinerolo a Yokohama, del Farinettismo che, insieme agli chef, dominerà il mondo e gli stomaci.

Di tanto in tanto fantasie rivoluzionarie mi invadono la mente: similmente ai dissidenti vegetariani di Delikatessen, che si organizzano contro il cannibalismo o ai primi cristiani che si riunivano in clandestinità, immagino gruppi di devoti protogastronomici che, nascosti agli occhi delle Sentinelle del Sapore Unico, si incontrano segretamente in cantine e sottoscala per scambiarsi salami felini artigianali, focacce pugliesi fatte in casa e melenzane sott’olio e a funghetti, ogni pietanza col suo sapore, che varia di volta in volta, secondo il clima, la mano, gli ingredienti.

Tutta roba messa all’indice dall’OMS, dalla Chiesa, da Slow Food e dalla Food and Drug Administration.

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Una Risposta to “Chiudi gli occhi e apri la bocca”

  1. llisaah Says:

    gesù, che impressione.
    io mi arruolo volontaria per resistere all’alienazione degli affettati misti, dei sottoli e delle frattaglie.
    l’altro giorno ho mangiato dei passatelli con animelle agrodolci, salsa al parmigiano e carciofi fritti. non ti dico la goduria. 😀
    si vive una volta sola, porcamiseria.

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