Checché la modernità ci abbia fornito ameni luoghi per incontrarsi e conoscersi – cocktail bar, palestre, social, app di dating, piazze reali e virtuali – il miglior sito di incontri resta sempre la letteratura. O la narrativa, se vogliamo essere meno formali e accontentarci anche di relazioni brevi e disimpegnate, saltuarie e dilettevoli.
Nella letteratura, frequentandola con un certo impegno, abbiamo modo di incontrare personaggi di tutte le età, razze e generi, stranieri, viaggiatori nel tempo e nello spazio, conoscerne le abitudini, i pensieri più intimi, le azioni riprovevoli e le virtù nascoste. Nella letteratura, che è a volte un salone di specchi, incontriamo anche noi stessi, quel che avremmo potuto essere, quel che non siamo stati, i parenti fino al terzo o quarto grado.
E con tutti questi noi, voi e loro, possiamo imbastire dialoghi proficui per scoprirci e approfondirci, per capire come mai le cose della nostra vita sono andate a finire in un modo piuttosto che in un altro e quali correttivi potremmo ancora apportare o a quali sorprese prepararci.
Se avete un’idea immediatamente carnale del dating, un mordi e fuggi senza preamboli, allora la letteratura non fa per voi; se invece siete persone con una cura del tempo e del rapporto, allora frequentare per un certo tempo questo o quel libro, quel filone o quell’altro, non offrirà immediato sollievo alla pulsione erotica, ma affinerà delle qualità analitiche e introspettive che nel tempo vi torneranno utili anche per quell’altro fatto là.
Fatta questa premessa, andiamo al punto: così come nella vita reale ci si imbatte sempre in quel tipo d’uomo che sarà la nostra croce e delizia, così nel mondo della letteratura la coazione a ripetere ci procurerà più di un incontro con un certo tipo di personaggio. Che può piacerci o meno, ma dal quale, come certi uomini che ci ossessionano, fatichiamo a liberarci.
Nel mio caso sono i commissari.
Commissari, investigatori, detective. Quella razza di uomini, insomma.
Ne ho frequentati diversi, ed ogni volta mi ripeto che non ci cascherò più, che non sono adatti a me. O non sono io adatta a loro.
E ogni volta invece scatenano in me qualcosa a metà tra la curiosità e il protettivo, qualcosa che un poco mi attrae e un poco mi ripugna.
I commissari si assomigliano, nel bene e nel male, ad eccezione di qualcuno.
Per esempio Sherlock, che ogni tanto me lo ascolto in podcast da trenta minuti durante le mie passeggiate. E ogni volta lo prenderei a schiaffi per quel dandismo leziosetto con cui risolve i casi, senza scomporsi di una virgola, per quella flemma e quelle frasi fatte tipo: Una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.
Che a me verrebbe da dirgli gnè gnè, ma te ne vai o no?
Da bambina e ragazzina amai Maigret, di cui porto un ricordo televisivo vago e sornione, I delitti della Rue Morgue, Nick Carter, Ellery Queen e Nero Wolfe, il Tenente Colombo e Sanantonio.
Poi basta, mollai i Commissari per molti anni: facevano sempre le stesse cose e dopo un po’ che li seguivi non ti sorprendevano più, non ti stupivano, seguivi i loro percorsi mentali e le abitudini, diventavano come quei fidanzati che il sabato ti portano sempre a mangiare la solita pizza nel solito posto o quei mariti con i quali un giorno cala un silenzio improvviso, perché l’abitudine ci ha reso così sintonici da non necessitare più le parole.
Poi incontrai Pepe.
Pepe era diverso da quelli che avevo frequentato fino a quel momento: io ero una giovane donna che appena si affacciava al mondo, ancora carica dell’educazione acquisita in una città di provincia del Sud e dei suoi luoghi comuni.
Pepe faceva qualcosa che mi turbava enormemente: bruciava i libri e amava una puttana.
E per me, che tutto volevo trattenere e accumulare, fu uno choc; Pepe mi aprì la finestra su un mondo di diverse possibilità: l’arte di disimparare, la capacità di disubbidire ai maestri, l’amore improbabile.
Con Carvalho trascorsi anni.
Intuii con lui l’inganno che c’è dietro alcuni commissari, o meglio, dietro i loro autori migliori: la costruzione narrativa come una scatola giapponese che di volta in volta ha doppi fondi, aperture e chiusure complesse, ma che se non si ha la voglia e la pazienza di smontare resta comunque bellissima, splendido oggetto decorativo artigianale di cui contemplare la trama finemente intarsiata.
Così faceva lui: disseminava i suoi romanzi di sottotesti e citazioni che potevano essere tralasciati, per seguire la trama, o approfonditi, per conoscere un periodo storico, la politica di quel tempo, l’arte, i dettagli.
Ma occorreva tempo, e a quel tempo non c’era l’Internet.
Alcuni libri li ho letti sfogliando contemporaneamente i volumi verdi della Rizzoli Larousse per andare più a fondo nella storia.
Il commissario in questo è subdolo, parla a vari livelli e quelli meno immediati sono i più goduriosi. Ma si tratta di un espediente, e io detesto gli espedienti: lo scrittore di commissari non fa altro che somministrare al lettore un farmaco complesso mettendoglielo dentro a una serie di zuccherini. Una sorta di gigioneria, un voler piacere a tutti i costi e ai vari target di lettori.
Smisi di seguirlo quando cominciò a scrivere ricette di cucina, che è uno degli aspetti alquanto detestabili dei commissari tutti.
Non perché il bere e il mangiare siano male, ma perché si calca troppo la mano su quest’aspetto.
Il commissario gourmet in genere è una specie di sciattone, sempre sudaticcio e con la camicia fuori dai pantaloni, macchie di sugo, bicchieri sparsi per la casa con mozziconi di sigaretta dentro, nuvole di fumo di sigaro, pentole azzeccate e bruciate dalla sera prima, lenzuola piene di bricioline di pane. Per lo più si presenta come un ignorantone, grezzo, spesso accoppiato con una donna bellissima e colta che egli – il commissario – alternativamente venera o tradisce con enormi sensi di colpa, o da cui viene lasciato perché la povera cristiana non ce la fa più a reggere tanto disordine esistenziale e l’unto del commissario e se ne va con un onesto professore di ginnastica o col dentista, tanto ammodo e sistemati, e il commissario accumula dolore e cinismo – mai livore – e si fa ancora più chiatto e disordinato, fino a che succede un fatto che segna la svolta.
Ma andiamo con ordine.
Dopo Pepe lasciai perdere i commissari tutti: mi ricordo come se fosse ieri quando mia sorella si presentò a casa con un tomo di Carvalho autografato da Montalbàn in persona che mi faceva gli auguri per la nascita di mia figlia e io poco dopo lo tradii con Roberto Bolaño e le sue puttane assassine.
Intanto apro e chiudo una parentesi sui commissari televisivi: non li voglio vedere manco morta, stereotipizzano ulteriormente il personaggio, lo fissano in una parlata, una postura, so’ insopportabili. Prendi il giovane Montalbano, per esempio. Le mazzate proprio.
Tornando alla carta, a un certo punto frequentai per pochissimo quello che parlava coi morti e che mo’ va pure lui in televisione, che pur non essendo uno sciattone, era talmente imbranato con le donne da generarmi uguale fastidio, per cui lo mollai dopo un paio di libri e non ne volli più sapere niente, né di lui né del suo autore piacionissimo in questa Napoli alleccata da una penna tanto melensa quanto insulsa.
Però la questione che più mi infastidisce dei commissari è la serialità.
Io vorrei dire agli scrittori di commissari: tu ne hai scritto uno? Ne vuoi fare un altro? Fallo. Ma poi basta, questa forma di assuefazione e dipendenza del lettore non ti fa onore, trova un’altra forma narrativa e dici quello che hai da dire, senza doverlo per forza travestire ogni volta per farcelo digerire meglio.
La serialità narrativa io la trovo insopportabile, che siano film con sequel, serie tv, soap opera o commissari. E’ un’operazione di marketing che non mi convince. E se non lo è, spiegatemi allora cos’è.
Conobbi poi Nick Corey, che non era esattamente un commissario ma uno sceriffo texano di penna italiana, sboccato e irriverente, a suo modo pure simpatico. Personalmente non ci avrei bevuto nemmeno un caffè insieme, e sono certa che nemmeno lui con me. Fortunatamente il suo autore, dopo due episodi, ha scritto un gran bel libro sul Male, la semplicità del Male, la banalità del Male e ha licenziato lo sceriffo.
Poi però, quando proprio credevo di non volere più vedere commissari, conobbi Fabio Montale.
E lì fu un colpo di fulmine, un amore totale e travolgente che mi face fare Roma-Marsiglia avanti e indietro non so più quante volte, Trilogia di Izzo alla mano per vedere Marsiglia e le Calanques con gli occhi di Montale, mangiare come Montale, andare in barca come Montale, fumare come Montale e finanche fare l’amore come Montale, con quel senso di mai più ad ogni abbraccio.
La morte di Fabio Montale è stata come la morte di un parente stretto: nel buio della stanza, accartocciata sul divano, piangevo a singhiozzi e non riuscivo a smettere.
Dopo Fabio ho frequentato pochissimi altri commissari, quelli che non hanno una tendenza a morire, per lo più.
Ho conosciuto quel brav’uomo di Mario Petrone, commissario calabrese in Del nostro sangue, ho ripetutamente frequentato, anche con amici, il commissario Caponegro in giro per il Mandrione alle prese con i suoi casi surreali e fantastici. Da qualche giorno vado a letto con un russo, il commissario Kovalenko alle prese con la morte misteriosa della Venere di Taskent e il Regime nel ‘67. Un commissario che mi è piovuto dal cielo, pluf, di ottima compagnia.
Al di là di tutto, i commissari letterari hanno caratteri difficili e silenziosi: bevono molto, mangiano molto, fumano molto, soffrono di insonnia, sono scorbutici.
Per lo più, tranne qualcuno, ti passano accanto inosservati, anche insulsi, con una carica di umanità e sensibilità molto forti dissimulate in un aspetto da ragioniere del catasto, con una storia personale che viene da lontano e ti raccontano a fatica.
In un gioco di rimandi un giorno il commissario letterario dovrebbe iniziare delle indagini sul suo autore e cercare di scoprire perché abbia voluto creare proprio un commissario, se per nascondere qualcosa o per meglio svelarla. E poi condurre indagini sul lettore, con l’aiuto della Scientifica, per capire l’attrazione verso il genere.
E poi arrestarli tutti e andarsene in giro, libero e spensierato, senza casi da risolvere: a raccogliere asparagi e giocare a calcetto.
Chissà com’è andare al cinema con un Commissario letterario disoccupato.