A Kiev il tango non si balla. E neppure ci sono ebrei da ricordare o ghetti da visitare.
O forse c’è tutto, ma non mi hanno voluto mostrare né questo né quello. Anzi, sul secondo punto confesso addirittura di aver sentito una certa riprovazione, nel negozio di dischi in cui cercavo musica klezmer, jewish, judìa e pure in russo l’ho chiesto – ce l’avevo scritto su un foglietto con la pronuncia esatta di ciò che dovevo chiedere – ma niente, mi hanno fatto una faccia come a dire: non t’azzardare mai più a chiedere una cosa così, e infatti mi sono comprata un disco di un cantautore russo con la faccia di Serge Gainsbourg e uno di un gruppo di classica che proprio non si può sentire, e anche uno di lirica contaminata con non so che.
Pure la signora Gala mi ha detto di andare a Odessa, per queste cose, e poi ha ripreso a parlare dei giorni di Chernobyl e di come a volte in aeroporto ancora ti misurino le radiazioni, a campione, e non aver paura se il rilevatore schizza al massimo, tra qualche giorno calano e non ti farà più male di tutto il male che hai sotto casa tua.
Al posto del ghetto che non c’era mi ha portato a visitare il monastero Lavra, pieno di cupole dorate e preti ortodossi che mi hanno sollevato una questione perché avevo i pantaloni – larghi, si badi bene – mentre c’era una specie di fotomodella con una minigonna inguinale (in questo benedetto paese sono tutte fotomodelle, per quanto il signore all’aeroporto, accento napoletano, viso arabo e statura sarda sostenesse che l’unica razza rimasta pura a questo mondo sia quella bielorussa, e difatti lui andava a Minsk e non a contaminarsi con questi caucasico mongoli zozzosi) alla quale non rimproveravano nulla e dopo le mie vibrate proteste mi hanno fatto rilevare che la sua era comunque una gonna innocente, mentre i miei erano blasfemi pantaloni alla pescatora, e io ho risposto un: ma annàtevene affanculo, però l’ho detto in un dialetto stretto che si parla tra Erevan e Baku e così non m’hanno capito.
Con estrema certezza e a meno di non volermi del tutto immedesimare nel personaggio – e lo potrei fare, si badi bene, lo potrei fare benissimo ma non lo voglio fare – Brod non c’era da nessuna parte.
In compenso c’era l’uomo di Kolki.
No, più precisamente: l’uomo di Kolki era in un’immaginaria stanza di fianco, ed io potevo guardarlo attraverso il buco nella parete che separava i nostri spazi e tempi e provare a descrivermelo, mentre accanto a me, sul sofà, la mia amica di sempre mi raccontava ancora una volta di lei, di me, di noi, di ciò che fummo e che siamo e io pensavo che si è sempre sopravvissuti a qualche cosa e quando lo si riesce a raccontare con distacco si è già abbastanza altrove, in un posto migliore, o quanto meno sulla buona strada, e che la cosa terribile adesso è guardare gli altri e vederne i grovigli in trasparenza e sapere senza possibilità di errore che chiunque si avvicini a noi ha un nodo che si incastra perfettamente con i nostri, e che anche quando i nostri ci sembrano totalmente districati, pure un poco ancora si attorcigliano, talvolta di notte, talaltra in certi tardi pomeriggi o in certi risvegli – pochi, ormai pochi, pochissimi, sempre meno, potremmo contarli sulle dita di una mano, per quanto radi si sono fatti, fortunatamente – che non sanno di nulla, privi di gusto.
Privi di tatto, talvolta il problema è questo. Il senso che manca è spesso il tatto, banalmente.
Il non sentirsi – e il non trovarsi, o il perdersi – appartengono alla sfera del tatto, più che ad altro.
Che poi per inciso e casualità ho pure scoperto che Lacan, questo benedetto Lacan che un giorno prima o poi dovrò leggere, chiama “la Cosa” quel desiderio inconscio che ruota intorno a un vuoto di senso. La chiama la Cosa, esattamente come la chiamo io, quella sorta di mancanza che ci fa da tratto costitutivo, quella mancanza che può riempire tutto e soffocare. Il tatto. C’entra il tatto,
Poi pensavo anche a un altro fatto sul piacere e non piacersi, ma non ho voglia di scriverne ora.
E riflettevo invece sull’altro grande tema di questi giorni, mentre leggo un libro sulla paura che mi dà angoscia e sollievo allo stesso tempo, e racconta di come, perduti nel gorgo del maelstrom o di quello che volete voi purché sia spaventoso, ci si possa salvare solo rinunciando al conosciuto, a ciò che si sa di sé e accettando invece l’idea di procedere come se. Come se si sapesse. Come se. Come se non si avesse nulla da perdere. Rinunciando alle associazioni e ai nessi sperimentati.
Come se si possedessero i mezzi per uscirne.
E pagando poi, al ritorno dall’abisso, il prezzo della diversità, anche agli occhi di chi ci era affine, che senza aver mai visto il gorgo in cui siamo precipitati, ci trova d’improvviso cambiati e un poco spaventosi, in questo come se che fa paura perché ha il marchio di una frontiera attraversata, di un inferno varcato, di ciò che ai più continua a restare straniero.
Così che – muovendosi esattamente come se – tutti i non ti amo che si sono detti, quelli di Brod, ma anche i miei e i vostri, per intenderci, i non ti amo rivolti a sé e poi al mondo, possano diventare, per capovolgimento, dei ti amo.
Come se.
Ma non un bluff , un come se autentico.
Come se non ci fossero alternative, e di fatto non ce ne sono. Non esistono altre soluzioni possibili.
Come se potesse funzionare. Come se arginasse la caduta, lo strapiombo, il vuoto.
E funziona.
E poco importa se a Kiev non si balla il tango. Per quello c’è tempo, c’è tutto il tempo.
Ci sono dei momenti ultimamente in cui mi pare di essere eterna. O come se. Il che fa lo stesso.
luglio 8, 2008 alle 4:45 PM |
Pronta dunque a raccontare la storia di Asif e di tutte le sue peripezie, sul modello (e le modelle) delle mille notti e mezza.
(a sproposito, aprendo la tua pagina compare un’oscena proposta di dialer, economicamente oscena intendo — che sia il prezzo per quelle minigonne giropassera?)
luglio 8, 2008 alle 4:59 PM |
zu, vuoi controllare se si è tolta la gonna?…ehm…volevo dire il dialer? 😀
(ho tolto uno script sospetto, la settimana scorsa mi è impazzito il cellulare. mi sento come se fossi oggetto di una tempesta magnetica. )
luglio 8, 2008 alle 5:30 PM |
Sembra che la tempesta magnetica si sia acquietata. Sotto con quella ormonale!
luglio 9, 2008 alle 12:17 am |
odessa,
non è sempre la stessa, la mela di odessa, a cavallo di una foglia Demtrio Stratos non c’è più greco di Romagna, ma io sono suo contemporaneo,
non sono contemporaneo di un signor De Capua, che non era di Capua, a capua vendevano tanti di quei meloni, che poi erano Angurie quelle che non si vedono più, perchè erano di Capua quelle oblunghe, e c’erano pure le barbabietole, rossastre e con la barba come i preti di odessa e a Odessa c’era sto De Capua, che piangeva appucundriuso pensanso alla sua Napoli che si moriva di fame e pulci con la grande guerra, grande nel senso che morivano parecchi cristiani e pure di qualche altra religione, e insomma per concludere a Odessa il De Capua scrivette “O sole mio” Ma le vecchie signore americane che lo chiedono ai camerieri di Acapulco non lo sanno.
luglio 9, 2008 alle 10:29 am |
(cavalie’, io ho come l’impressione che voi mi state un poco sfottendo stilisticamente, con tutte queste associazioni di idee che pure a me mi piace azzeccare alla rinfusa pescandole a man bassa man mano che fioriscono)
luglio 9, 2008 alle 11:26 am |
Passeggiavo e mi sono fermato. Ciao al piacere di rileggerti al più presto.
luglio 9, 2008 alle 5:12 PM |
àstato come attraversare un labirinto che sai fin dall’iinizio che esce dalla bocca di qualcun altro, o dagli occhi; come se sapessi da subito che saresti venuto fuori, anche se finché sei dentro non si intravede una via d’uscita. Come seâ¦
Secondo me il cantautore russo con la faccia di Serge Gainsbourg è anche lui d’origine giudea; è come se lo vedessi, mentre ne parlo. Come seâ¦
Il tattoâ¦, il contatto⦠è come se le mani, le dita, la pelle⦠ci confermassero che siamo ancora qui, come pizzicarsi nei sogni. Come seâ¦
E tutti quei come se che puntellano il testo come pietre miliari che indicano un’uscita, mi fanno venire in mente il se magico del metodo Stanislavskij, che è un po’ come vivere la vita come giocano i bambini. Come se si stesse ancora a giocare a guardie e ladri, sceriffi e infermiere, dottori e indiane. Come seâ¦
luglio 9, 2008 alle 5:20 PM |
(Cavalié, secondo me la Mela di Odessa è uno dei più bei rap ante litteram della storia della canzone. Lo vado dicendo da prima che nascesse l’hip hop e tutti quei figli dei Last Poets…)
luglio 9, 2008 alle 5:24 PM |
(ma la mela di Odessa è una canzone nota? uhggesù, e me la volete mandare in qualche modo prima di farmi fare qualche altra brutta figura dettata da ignorandità del panorama musicale – e non solo – degli ultimi 40 anni?)
luglio 9, 2008 alle 5:31 PM |
(ha un giro di basso strepitoso quanto la voce di Stratos)
luglio 9, 2008 alle 5:42 PM |
e poi un’altra cosa, alla fine di questa giornata che non finisce più, che da stamattina sto appresso all’Ucraina, dati, quadro macroeconomico, statistiche e cose così, e finisce che mi dimentico della poesia.
la potessa di Odessa, che entrò nella mia vita tanti anni fa, in forma di un libro puzzolente scritto in cirillico, e quel nome – Anna Achmatova – non mi diceva nulla (ma perché mai, perché mai nelle nostre scuole ci tacciono di tante cose?) e poi diventò una delle mie più amate.
la poetessa dell’Ultimo brindisi, che altrove ho già una volta citato:
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
allâinganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.
e di questo frammento, prefazione di Requiem, e il potere salvifico del racconto:
Negli anni terribili della ežóvÅ¡Äina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi âriconobbeâ. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
– Ma questo lei può descriverlo?
E io dissi:
– Posso.
Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.
scusate, ma oggi in mezzo a tanta macroeconomia, senza un poco di poesia mi sparo.
luglio 9, 2008 alle 5:45 PM |
m’a vulite manda’ ‘sta mela ‘e Odessa, pe’ ppiacere? 😀
luglio 9, 2008 alle 6:47 PM |
aiccanne
(sarà qualche lustro che non l’ascoltavo)
luglio 9, 2008 alle 11:35 PM |
sono fortune,
tra me e i miei amici di allora non avevamo più di venti dischi che ci scambiavamo e ce li registravamo sulle cassette ed erano tutti così belli
luglio 10, 2008 alle 12:07 am |
io ce l’ho ancora quell’elleppì (che sensazione strana scrivere elleppì; quasi quasi lo scrivo di nuovo elle-ppì. (Però secondo me è un elleppì che non piacerà tanto a flounder codesto e l l e p p ì q u a .))
luglio 10, 2008 alle 1:43 PM |
sentite, io l’ho sentita, questa cosa qua della mela.
ha ragione aitan: non mi piace, non mi può piacere, io non so’ femmina da rock.
io so’ femmina etnica, yiddish e pure un poco neomelodica 😀
luglio 10, 2008 alle 11:21 PM |
Flo, Vi voglo bene! Sai quando uno comincia così prende la rincorsa per arrivare dove non condivide, e insomma
– Gli area non sono una rock band, non portano le chitarre sulle ginocchia, non si vestono di pelle, non buttano le tv già dalle finestre degli alberghi
– ancora ua volta si conferma l’analogia tra musica e matematica, sono gli unici argomenti di cui ci si vanta di non saperne e non gradirne
– preferire il neomelodico agli area è come preferire paolo cohelo a james joice, cosa che nessuno mai ammeterebbe, anche se è molto più vera – ma non per te 🙂
baci
luglio 11, 2008 alle 6:36 am |
ma che s’ gli Area?
una Posse?
(tanto ormai ho capito che posso sparare qualunque scemità , il danno è fatto)
luglio 11, 2008 alle 10:08 am |
Demetrio Stratos voce , Ares tavolazzi basso , Giulio Capiozzo batteria, Patrizio Fariselli tastiere, Paolo Tofani chitarra (poi dissoltosi come hare Chrisna), gli Area, gruppo assolutamente originale, ma originale bello non contaminazioni a caso, fondeva (quando non esisteva la fusion) Jazz acustico elettrico (il Bitches Brew di Miles Davis, era nell’aria), musiche balcaniche, elettroniche, contemporanee, performances, impegno politico, poesia. Incidevano per la Cramps, etichetta alternativa o veramente, quando le indie erano quelle della compagnia theifera.
Loro pezzo più famoso “luglio agosto e settembre nero” su you tube trovi un gruppo giapponese che lo suona ancora oggi.
Stratos morì improvvisamente di leucemia, si fece un bellissimo concerto di addio con De Andrè, Finardi, etc, di cui dovrebbe trovarsi ancora il disco. I tre rimasti cosntinuarono a fare del buon Jazz prima insieme oggi sparpagliati.
luglio 11, 2008 alle 10:36 am |
A quel concerto c’ero. Arrivammo all’Arena di Milano in bicicletta da Seregno, perché nessuno di noi amici era ancora patentato (però eravamo adolescenti, non teen-ager).
Se non ricordo male, gli Area (ovviamente privi di Demetrio ma con Paolo Tofani redivivo per l’occasione) suonarono l’Internazionale.
(curiosità : oltre ai grandissimi della scena musicale italiana di allora, ossia cantautori e gruppi storici tipo PFM e BMS, fecero capolino gli Skiantos e i Kaos Rock)
luglio 11, 2008 alle 10:42 am |
mi documenterò.
ora mi rivolgo al mio pusher di fiducia 😀
luglio 11, 2008 alle 11:58 am |
Tavolazzi suonava – e forse suona ancora – con Guccini.
Stratos usava la voce come uno strumentocioè, non tutte quelle puttanate tipo “bibop rettestubdtettebom”…diciamo una specie di tromba riveduta e corretta da corde vocali che sputavano fuori a tratti pezzi di anima e rabbia congenita.
Anche la politica ci azzeccava, naturalmente, ma non in maniera programmatica, era solo un naturale incazzarsi di fronte a ingiustizie intollerabili.
“Il mio mitra è il contrabbasso che ti spara sulla faccia, che ti spara sulla faccia ciò
che penso della vita, con il suono delle dita si combatte una battaglia, che ci porta
sulle strade della gente che sa amare.”
Trattasi di Gioia e rivoluzione (http://www.youtube.com/watch?v=BXB-PoihfYI)
luglio 11, 2008 alle 11:58 am |
…era il 1979, quel concerto lÃ
[e io al pusher, per cominciare: chiederei il primo album: “Arbeit macht frei”, 1973 – con Djivas al (contra(basso) al posto di e Victor Edouard Busnello ai sax) o l’ultimo con DemetrioStratos: “1978, gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano” – con la formazione indicata dal cavaliere più la cagna Fernanda Paloma Pawìnsquaw come seconda voce]
ma qui se non blocchiamo il thread si rischia di fare un blogfanzine dell’international popular group…
luglio 11, 2008 alle 12:14 PM |
ahhhh, ma mo’ mi è tutto chiaro.
era il ’79.
e vi credo che non so di che state parlando, non ero ancora nata! 😀
luglio 11, 2008 alle 12:21 PM |
e io pe’ questo ce lo ho voluto storicizzare un po’, pe’ mettere i puntini sulle i di voi giovanid’oggi
luglio 11, 2008 alle 12:39 PM |
Amore, lo sai quando sono morti Gardel e Canaro? :)))
luglio 11, 2008 alle 12:55 PM |
…amore..? …amore..?
uhggesù, cavalie’, e daquandinquà ci esprimiamo in questi termini?
ma lo sapete che vi posso pure far arrestare per pedofilia? 😀
(Gardel lo so, è nel ’35. Mi sono letta il Tango delle Ore piccole di Puig nel ’93, quando avevo quei dodici o tredici anni e mi è rimasto impresso)
luglio 11, 2008 alle 4:54 PM |
pardon,
ma per voi bimbi che è ?
Agape, Fileo e certamente non Eros
🙂
luglio 11, 2008 alle 7:36 PM |
è che quando ti leggo così, mi sembra che lo sei. Eterna. E poi questo pezzo qui (“si è sempre sopravvissuti a qualche cosa e quando lo si riesce a raccontare con distacco si è giàabbastanza altrove, in un posto migliore, o quanto meno sulla buona strada, e che la cosa terribile adesso è guardare gli altri e vederne i grovigli in trasparenza e sapere senza possibilitàdi errore che chiunque si avvicini a noi ha un nodo che si incastra perfettamente con i nostri, e che anche quando i nostri ci sembrano totalmente districati, pure un poco ancora si attorcigliano, talvolta di notte, talaltra in certi tardi pomeriggi o in certi risvegli â pochi, ormai pochi, pochissimi, sempre meno, potremmo contarli sulle dita di una mano, per quanto radi si sono fatti, fortunatamente â che non sanno di nulla, privi di gusto.”), Flounder, questo pezzo qui…
luglio 11, 2008 alle 7:40 PM |
Francisco Canaro morì il 14 dicembre 1964
http://it.youtube.com/watch?v=AL9scCF6F1E
questo qua è il suo pezzo più bello, ballato dai ballerini più eleganti ancora viventi (e purtroppo non ballanti più insieme)
e questo, consenta la signora monodose, è pura poesia in moto…anche se il signor Canaro ai sui tempi era considerato un drettore d’orchestra decisamente pop, un pò facilotto, un pò neo(‘)-melodico…una specie di Gigi D’alessio degli anni ’30-’40, và !
(chiedo scusa, ma sulla guardia vieja non mi riesco a trattenere, nonmi..)
luglio 11, 2008 alle 11:19 PM |
grande Canaro!
(secretà detto tra noi in quel video avrei notato un’altro fatto di poesia visiva e non solo, nel portabagagli della signora, ma non lo dire a nessuno shhhh)
luglio 13, 2008 alle 5:19 PM |
questo post sul come se me l’ero persa, che sciocca!
che il “come se” diventa “che” alla fine, man mano che si convince il “noi”.
ho detto una scemenza? :))
luglio 14, 2008 alle 9:34 am |
secretario, aspetta che guarisco completamente, poi mi metto d’impegno a forma di geraldine.
(e tu, tu, tu assai à la javier)
(cavalie’, ci metto pure il portabagagli, quantevvero canaro)
pispa, hai detto bene.
mo’ se tenessi un po’ di tempo (e voglia) scriverei su ordine e disordine, su stratificazioni e sovrapposizioni, ma lo sto ancora pensando.
luglio 14, 2008 alle 11:20 am |
zarit, nello scrivere quel pezzo lì pensavo ad una serie di persone che mi sono assai vicine.
c’eri anche tu.
(e i tuoi nodi, che si stringono laddove ho le radici e se non allentati in tempo non mi fanno respirare)