Effetti personali, affetti personali. Un tentativo di messa in ordine. Per quel tanto che è possibile.

C’è la questione delle forme, delle apparenze. Quelle per cui talvolta mi si rimprovera di essere superficiale, disattenta. Poco accorta. Di scambiare fischi per fiaschi, lucciole per lanterne. Di prendere giganteschi abbagli. Di esprimere giudizi sommari e valutazioni incomplete. Nel bene e nel male.

Non lo so, ma non credo. Cioè è anche vero, ma in un altro modo. Poi ne scrivo un’altra volta, ha a che fare con l’osservazione dilatata nel tempo. La famosa “variabile tempo” oggetto di chilometriche discussioni tra me e Hanging (a proposito: leggetevi il post sulla morte ai tempi di Facebook).

La cosa in cui credo invece è la corrispondenza tra forma e sostanza, tra contenitore e contenuto. La sostanziale identità che lega ciò che siamo al come appariamo.

Tutto quello che chiamiamo in campo a rappresentarci – dallo stile di abbigliamento all’eloquio, dalla plasticità del movimento nello spazio alle forme acquisite del nostro corpo, dai gusti letterari ai sapori che amiamo – è la sostanza stessa delle cose. La forma ci rivela e ci svela. Talvolta ci tradisce, come un indizio probante. Difficile che sia nascondiglio e paravento. O travestimento.

La forma non ha la capacità di mantenere nel tempo la tensione della finzione permanente. E’ semplicemente un insieme di dettagli che operano simultaneamente, impossibili da tenere tutti sotto controllo perché possano rispondere a un disegno diverso da ciò che spontaneamente rappresenterebbero. Se mutano i contenuti muta anch’essa.

E per quanto ci si possa violentemente opporre a questa visione, e dirsi e dirci diversi da come ci sembra e si sembra, l’unica cosa che se ne otterrà sarà una frattura interna.

Gli uomini danno forma ai propri contenuti avvalendosi di strutture inconsce.

(Questo vuol dire che si è sé stessi anche e soprattutto quando si cerca di essere altro, come il paraverbale che tradisce le bugie, ad esempio.)

Non sta a me scoprire o cercare queste strutture inconsce, non sta a me e nemmeno a voi individuarne le origini.

A me interessa il prodotto finito. Mi interessano le evidenze, il modo in cui ci si porta a spasso in questa vita. E’ solo tramite le forme che entrerò in contatto con la sostanza. E’ dai modi espressivi che imparerò i processi. Non esistono altre vie d’accesso, e se anche in qualche modo sembri possibile individuarne, non sarebbe altro che una forzosa interpretazione di ciò che è tenuto nascosto, un processo all’invisibile o una sua insensata celebrazione. Non va bene, no. Non ha senso.

Non è la scoperta di ciò che è in profondità, inconscio, a creare la possibilità di un legame con chi ci sta davanti, ma solo la comprensione del superficiale, la possibile e appagante interazione con il visibile.

Darsi a ciò che si immagina o si crede di intuire è arroganza. Darsi a ciò in cui non si crede è autodistruzione. Darsi a ciò che si è sicuri esista, ma resta indimostrabile a terzi, è follia o santità.

Ci si deve dare a ciò che si vede. Né più né meno.

Eppure c’è una possibilità di scarto tra contenente e contenuto, questo sì, la vedo.

Ma non è di tipo qualitativo.

E’ uno scarto quantitativo, come se esistessero un nucleo, una superficie e una distanza tra questi due. Uno spazio da colmare, in qualche modo: o si amplia il nucleo o si riduce la superficie.

Lo spazio vuoto è uno spazio inconsapevole, in cui si annidano costruzioni arzigogolate, continui rimandi a cose che restano sempre un poco inespresse, e che tuttavia continuano ad operare sulla forma, a imprimersi. Lo spazio vuoto è esattamente lo scollamento tra ciò che si è e ciò che si vuol credere di essere. E’ il buco che ingoia ossessivamente tutto quello che ha intorno, pur di sentirsi pieno e sparire a se stesso. Lo spazio vuoto media il trasporto di informazioni dalla sostanza alla forma e simula una diluizione, una serie di alternative possibili e – a un tempo – fittizie. Vorrei dirlo meglio di così, ma non riesco. Lo spazio vuoto è un inferno. E’ l’Inferno.

Mi immagino gli esseri umani disegnati come una cellula. Volevo scriverne da tempo, ma ultimamente non riesco a concentrarmi. Sto immagazzinando saperi e dati nuovi e non c’è molto spazio per altro. E’ un’immagine che vedo con chiarezza, tuttavia. E ciò che crea le differenze nella qualità e nel valore delle persone è la maggiore o minore distanza tra il nucleo e il perimetro esterno. Lo spazio vuoto, la terra di nessuno che non si ha il coraggio di attraversare. Più è estesa, questa distanza, e meno sei, meno ti appartieni, meno significhi a te stesso.

La vedo negli altri e dentro di me, questa distanza, nei giorni in cui non mi piaccio e so che alla mancanza di grazia dei miei comportamenti corrisponde un disagio interno, un ritrarsi, un volersi nascondere. E so che invece mi basta un gesto, una microtrasformazione dell’agire, per rendere nuovamente positiva l’alleanza di forma e sostanza, di sentimento e azione.

E’ da anni che ormai discuto con chi mi è vicino, con le persone alle quali voglio bene, sul fatto che se il sentimento genera il comportamento, non è altrettanto vero che per mutare un comportamento occorra modificare il sentimento che lo ha generato.

Anzi, a volerla dire tutta, questa cosa non funziona quasi mai, o richiede tempi di reazione lunghissimi.

Modificare un comportamento è molto più facile. Concentrarsi sulla reiterabilità di un’abitudine, scomporla e variare anche un solo elemento della sequenza, per ottenere una modifica complessiva dell’azione e un suo riflesso sul rispettivo sentimento generatore, è talmente più facile che non ci si pensa, a volte lo si crede addirittura svilente. Quasi una bassezza nel proprio sistema di adattamento al mondo.

Si crede più nobile ed efficace rimuovere le cause, con una grande azione di razionalizzazione, senza darsi conto che confidare nella propria capacità di rimozione intellettuale della causa è spesso il più grande alibi dell’esistenza, è il riconoscimento dell’enormità dell’ostacolo e al tempo stesso l’origine della creazione della sua inamovibilità.

C’è in questo una sfida enorme al sistema, già persa in partenza: una sorta di orgoglio circa le proprie, enormi,  potenzialità inespresse e mai realmente verificate che sfida e fronteggia l’incapacità, effettiva, di poter esercitare un autocontrollo. Il wishful thinking al posto del principio di realtà. La persistenza di un pensiero irrazionale con l’ambigua funzione di  dominare la paura del mondo e al tempo stesso fornire spiegazioni all’incapacità di farlo.

La questione è che il principio di causa ed effetto funziona meravigliosamente, ma davvero perfettamente, nella creazione di circoli viziosi.

I circoli virtuosi invece si costruiscono a partire dagli effetti. Se poi non sono speciali, è anche meglio.

 

(Ringrazio sentitamente filosofi e filosofesse inconsapevoli che involontariamente, inconsapevolmente e pure di striscio, mi hanno fornito inattesi spunti di riflessione. Non serviranno a molto, ma mi aiutano a rimettere ordine nel mio mondo interiore. Grazie al mio lettore affezionato, che conserva accuratamente i miei pezzettini e li protegge dalla furia del tasto delete. Grazie a Bateson, che mi aiuta a comprendere la posizione di mio padre e, più in generale, delle forme e degli stili di distruzione e autolesionismo. Non attutisce il dolore, ma gli trova una sua collocazione. Non mi rende impermeabile, ma mi aiuta a capire quando è il momento di lasciar perdere e alzare lo sguardo più in alto.)

16 Risposte to “Effetti personali, affetti personali. Un tentativo di messa in ordine. Per quel tanto che è possibile.”

  1. HangingRock Says:

    stai diventando una femmina di una tale ricchezza e complessità che la tua forma fatica a contenerti (avrei detto che è piena di smagliature, se non avessi temuto un’interpretazione letterale dell’affermazione, che non sta proprio in piedi, ma proprio per niente :))

    dopo torno comunque, eh. ti devo incollare una cosa.

  2. HangingRock Says:

    e comunque, alla fine, stringistringi, a voler far coincidere la pelle del commento al nucleo, senza frapposizione pallini di plastica da schiattare, sei BBONA.

  3. Flounder Says:

    sappi che ti devo fare una scenata di gelosia 😀

  4. anonimo Says:

    ciao signora, sono stato un pò fuori dal mondo internettuale, ma ti ritrovo in gran forma, e quindi contenuto si
    esse rerum est pecepi
    la gondola di Carlo Lodoli forma e funzione
    la tromba, la chitarra e il violino, sono la massima espressione di una forma Рbella- che ̬ quella
    per il contenuto -potenziale- che esprimono: il suono
    notte notte
    il cavalier (e..)

  5. Flounder Says:

    in gran forma è una parola grossa.
    tra l’altro ho sognato di comprare sigarette, il che la dice tutta.

    perché, come direbbe Hanging, non sono un ex fumatrice, ma solo una fumatrice che non fuma.
    (hang, per puro fatto di serendipità mi sono trovata degli approfondimenti sul fatto dell’assassino. è come dici tu, poi ti dico quanto ho appreso. l’essenza di qualunque programma riabilitativo, dallo smetetre di fumare alla pedofilia, si basa proprio su questo assunto).

    e poi qualcuno mi ha detto che non è vero questo fatto di forma e sostanza e che sono un poco determinista (e invece no, cara signora mia: sono anchedeterminista. più che altro sono una compatibilista.)

    allora, per essere sul filo della modernità, a voi che pensate che le forme siano una cazzatella, fatevi una passeggiata su Facebook e guardate nei profili dei vostri amici, quelli che conoscete davvero bene, e guardate ad esempio a quali gruppi sono iscritti.
    non ho mai trovato niente di più rispecchiante concentrato tutto insieme, un manifesto preciso dello stare al mondo.
    un amico mio mi ha risposto: vabbè, dai, ma è per scherzo, io manco lo so usare, mi invitano e accetto tutto.
    per scherzo un cazzo!, ho pensato tra me e me.

  6. anonimo Says:

    mi perdo nelle serate, l’alcol scivola come acqua, insieme a decine di sigarette e riwesco solo a pensare che no ho tenmpo e a buttarmi sul letto. in alcuni moemnti riesco a non pensare, in altri leggo cose come questa e viorrei morire, poi mi passa, mi dimentico tutto e trorno alla merda di sempre. god bless you, sister.

  7. Flounder Says:

    io per esempio faccio spinning.
    no, per dire, è una possibilità. mica l’unica. ce ne sono altre.
    qualcuno dice che pure i lavori forzati aiutano.

    (no, non è che so’ inzenzibbile, te lo spiego un’altra volta, chiunque tu sia.)

    god bless you, brother.

  8. Flounder Says:

    (o sister pure tu? boh)

  9. zaritmac Says:

    #2- #3- sappiate che ve ne devo fare due pure io. Che vi dovete mettere paura perché, a proposito di forma e sostanza, je so’ corta e male ‘ncavata. Che vuol dire che la mia piccola (bassa) persona non corrisponde alla gigantesca mia furia: QUaNDO CI VEDIAMO??????

  10. pispa Says:

    io, approfittando delle feste, ieri ho abbracciato mio zio e mia zia, che non ci frequentavamo più da anni.
    è stato bello, e mi sento molto bene, non so se in forma ma quasi 🙂
    un affetto, un effetto.. ecco

  11. HangingRock Says:

    Annunciazione, annunciazione. Da 5 minuti un’etnologa ex-antropologa è ufficialmente tra noi.
    La cosa non è affatto una bella notizia. Tra poco, grazie alla Nostra, potremmo scoprire di vivere in un mondo di stregoni oracolari e di maghesse psichiche, non so se mi spiego.

  12. Flounder Says:

    la verità vera è che stamattina mia figlia mi ha infilato un amuleto in borsa, legato con un sistema che ricordava il koratrakò e che ha permesso la buona riuscita.
    dove si dimostra che la stregoneria Рoltre a essere un male di famiglia Р̬ ereditaria, come sostengono gli Azande.

    mammamia quante profezie vi faccio, adesso.
    statevi attenti, statevi.

  13. ipsediggy Says:

    questo post è molto blinkoso.

    (suggeriscone la lettura con un sottofondo di canti salmodici norvegesi – a cappella – del sedicesimo secolo)

    [è vidente ch’ello stile, tu, nollo molli mai. hai paura che s’ammali, eh? ch’eppure stagion’è..]

  14. Flounder Says:

    sono prigioniera dello stile. mi tiene in ostaggio.
    ho anche la sindrome di Stoccolma.

  15. Flounder Says:

    E allora mi scrive un amico chiedendomi grosso modo (perdona la sintesi e perdona il fatto che divulghi, ma la questione mi pare interessante): lo stile è una delle cose a cui viene dato (da noi) un valore totalmente personale, nel senso che riguarda noi stessi. E ciò che intrinsecamente ci riguarda, ci alimenta. Alimenta la nostra autostima (quella nostra, non quella che diamo a vedere), e che quindi (nichilisti o autodistruttivisti che possiamo essere) non possiamo non amare.
    Non credi che sia quindi l’amore che proviamo per noi stessi a dare forma alle nostre â€esternalizzazioni di stile?
    E carissimo amichetto, ci ho pensato ben due giorni, tra l’€™altro innestando il pensiero su un altro più ampio che sto facendo, che riguarda i Confini, Facebook e il Corpo (poi quando mi sarà chiarita tutta e avrò finito di leggere Junkspace ne scriverò ampiamente), e ho pensato che no, non necessariamente.
    Mo’ però per argomentarlo ci vuole un sacco di tempo perché bisogna tenere a mente un sacco di cose.

    Allora, prendiamo il caso tuo: tu hai uno stile preciso e definito, in grande coerenza con ciò che sei. Hai condotte esemplari.
    Per dirla in breve, tu ti piaci dentro e fuori.
    Il che dovrebbe costituire la norma.
    C’è invece il caso €- non infrequente peraltro – €“ di chi si piace dentro e non fuori o viceversa.
    Questo fatto è impossibile, a meno che non si tratti di schizofrenia.
    In generale se uno non si piace solo da una parte (la forma o la sostanza) nel tempo scoprirà che non si piace veramente in nessuna delle due e pur di riuscire a piacersi da una sola parte effettua una complicata operazione per far quadrare i conti.
    Partiamo dalla sostanza: c’è un sistema di valori, che è tuo. Puoi averlo ereditato senza mai metterlo alla prova, oppure puoi averlo costruito passo dopo passo, testandone i contenuti e trovando corrispondenza tra come senti e come agisci.
    Nel secondo caso agisce quello che dici tu, l’amore per se stessi che diventa forma di se stessi veicolata al mondo.
    Nel primo caso, invece, il sistema di valori è ciò a cui tu dai la tua adesione formale, mentre nella pratica hai una serie di comportamenti che sono agli antipodi.
    Per ricompattare la frattura hai due possibilità: la prima è di fare salvo il sistema di valori, riconoscendo che tu però lo stai trasgredendo (il che nel tempo provoca tecnicamente un senso di colpa crescente e un’€™inadeguatezza che peggiorano le cose – non scendo in dettaglio, che è complicato).
    La seconda possibilità è che adegui il sistema di valori alla pratica di ciò che fai. Ossia che ridimensioni l’™ideale.
    Questo vuol dire scendere più in basso, abbandonare una visione fantastica delle cose e di te stesso, per ammettere che il tuo sistema di valori, la tua sostanza è altro. Questa è un‒operazione difficilissima, e non solo perchè richiede un’€™enorme onestà , ma perchè crea il vuoto: il tuo sistema di riferimento -€“ per quanto fasullo -€“ si sgretola e non hai alcuna costruzione teorica da opporre immediatamente per riempirlo, a meno di non voler ammettere che fino a quel momento ti sei raccontato frottole e introdurre il primo nucleo di costruzione successiva.

    Per tornare alla questione: la forma, lo stile alimentano l’€™autostima?
    Sì, se sono costruiti in coerenza con ciò che si è davvero dentro.
    No, se funzionano da sistema di copertura o da alibi.

    (aiuto, uno sforzo di sintesi così non lo facevo dal ‘€™39)

  16. Flounder Says:

    e comunque quando lascerò questa vita e qualcuno rimetterà ordine nelle mie corrispondenza non troverà nulla di compromettente, se non lunghe dissertazioni esistenziali e chilometrici carteggi di discussioni filosofiche.

    mai nessuno che mi scriva: scusate, signo’, me la fate vedere quaccheccosa di vostro intimo personale nella webcàm? 😀

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