Che il mondo fosse un luogo destinato alla complessità, per non dire addirittura al caos o all’entropia, io lo scoprii molto presto, durante l’adolescenza, nel momento esatto in cui i genitori smettono di acquistarti i vestiti e inizi a provvedere da solo, in nome di quella perversione chiamata Moda.
E qui un piccolo inciso, monito doveroso sui semi del Male, è necessario.
Il Male si annida impercettibilmente in piccoli interstizi del quotidiano, ad esempio in quella visione del mondo generata dalla moda. Il fatto che un anno si debbano indossare scarpe a punta e quello seguente tonde, mini gonne o gonne midi, camicie piene di ruche e volant invece di linee stilizzate – e guai a voi se intendete contraddire lo stilema imperante – rischia di condannarvi a uno stato di emarginazione, a una diversità intollerabile, a un penoso sentimento di inadeguatezza.
Sei demodée.
Quante volte me lo sarò sentita dire nel corso di questa vita?
E dunque per non essere demodé, per sfuggire a questa infamante accusa, ogni anno milioni di persone si rendono assurdamente ridicole con orrori che dopo pochi mesi saranno soppiantati da altri orrori: i pantaloni alla zuava, i pinocchietti, quelli alla turca, le spalline imbottite, le gonne plissettate, e altre cose che in sé non sarebbero disdicevoli se correttamente pensate su corpi adatti a indossarle.
Ma torniamo all’origine delle cose.
In quel principio di anni Ottanta comparvero i jeans. In realtà esistevano da molto prima, dai tempi della miniere, si diceva, ma di fatto popolarono improvvisamente il mondo della mia adolescenza introducendo, con le loro taglie, il germe di quel caos in cui sarebbe poi inesorabilmente sprofondato il mondo: alle conformazioni fino a quel momento note (6 anni, 8 anni, 10 anni) si affiancarono svariati sistemi di misurazione che non collimavano, per i quali erano richiesti calcoli di adattamento. Da un lato l’ordinata lista delle 38, 40, 42 e così a salire. Da un altro, un tentativo di semplificazione del mondo produsse invece le S, le M e le L. Ma i jeans invece sfuggivano a tutto questo: si presentavano con numeri astrusi: 24, 25, 26, 27 e via enumerando.
Una compagna di liceo, che aveva gli zii in America, ci rivelò la fatale combinazione: devi sempre aggiungere un 14. Così la 26 diventava 40, la 27 era un 41, la 28 una 42. La UE non esisteva ancora, ci trovavamo in quella cosa chiamata CEE, con la UE sarebbero arrivate altre taglie ancora: le 32, le 34, le 36.
Ma a quel punto io avevo già perso la misura delle cose e ancora oggi di fronte a una taglia situata nella decina del 3 non so risolvere l’arcano.
La mia disaffezione allo shopping rimonta alla giovinezza, è una delle cose che non sono in grado di gestire, come pure i telecomandi del televisore, la contabilità, la preparazione dei dolci e in generale tutte quelle attività che richiedono ponderazione, precisione e un livello eccessivo di dettaglio. Diciamo che me la sono cavata alla bell’e meglio: mi tengo lontana dalla tv, non cucino dolcetti e affido a terzi la contabilità.
Ma dovevo vestirmi, questo era fuor di discussione.
Sono così arrivata all’età adulta sempre vestita male, combattendo contro taglie tanto precise quanto inadatte a un corpo diverso: troppo piccolo, troppo tornito in alcuni punti, troppo sguarnito in altri. Per anni con la mia compagna di stanza, in ufficio, abbiamo pensato che un caffettano arabo ci avrebbe risolto un sacco di problemi: non lo dicevamo tanto per dire, i lockdown sono stati la nostra salvezza.
Una delle mie coach del lavoro dice sempre che faccio premesse troppo lunghe, ma io le trovo necessarie: inquadrano e definiscono il problema e consentono una migliore risoluzione.
Di conseguenza la premessa prosegue.
Nel pieno dell’età adulta compresi che tutta questa faccenda delle taglie era in qualche modo legata al consumismo. Ancora oggi, al cambio dello spazzolino, sono capace di imbambolarmi svariati minuti davanti agli scaffali incapace di scegliere le setole esatte, il colore più bellino, l’impugnatura ergonomica. Per poi scegliere a occhi chiusi.
Succedeva anche con gli assorbenti. Ali, spessore, lunghezza, densità delle trame, ma non voglio divagare: accade con molte cose.
Al principio dell’età adulta non conoscevo ancora il vocabolo profilazione, lo appresi tardivamente. In modo spiccio definii tutta questa varietà come pornografia, per quanto il termine non sia del tutto adeguato.
Fatto sta che alla scomparsa dei Levis 501, soli jeans che ero in grado di acquistare senza troppe difficoltà – bastava semplicemente accorciarli – divenni del tutto inadatta a comperarmi dei jeans.
Questa mattina ho deciso finalmente di affrontare il mostro, prendere il toro per le corna e procurarmi come tutti i cristiani del mondo, un paio di jeans, che per un vezzo antico continuo a chiamare bluejeans, sebbene mi ridano dietro.
Dopo una prima e rapida scorsa alle etichette mi sono avvilita: la profilazione è pervenuta alle sue estreme conseguenze, una combinazione complicatissima di taglie nella decina del 20, taglie nella decina del 30, vita così e cosà, coscia secca e coscia chiatta, sigarette e zampe di elefante. Così ho chiesto alla venditrice di aiutarmi e siamo già partite malissimo quando ha detto: una 44.
Una 44 a me? Ma come vi permettete? Io al massimo sarò una 41, che nella decina del 4 non esiste, ma voi potrete riconvertirla con le vostre equazioni complicate in una decina del 3 o del 2 a vostro piacimento per trovare il bluejeans adatto a me.
Alla fine ne ho misurati otto, cercando un compromesso tra me e la venditrice che finalmente si è arresa alla mia piccolezza mentre mi proponeva diversi modelli con parole che non ero in grado di comprendere: ho comprato ben due bluejeans che mi dovranno durare almeno fino alla pensione, perché non so se sarò mai in grado di sostenere un’altra simile prova da sforzo.
Mi sono ricordata, tra una misurazione l’altra, che mio padre vietava a mia madre di indossare i pantaloni in gioventù perché era geloso. Suppongo dell’aderenza al corpo e per l’evidenziazione delle forme. E mi dicevo: se sapessi, mammina mia ancora più piccola di me, così diversamente fisica anche tu rispetto ai modelli della modernità, quante umiliazioni ti ha risparmiato tuo marito in questa presa di posizione contro i bluejeans, e quanto è vero che le gonne in definitiva risolvono molti problemi nella vita.
Sono rientrata a casa con il sentimento di aver superato un ostacolo immenso, di essere, ormai in piena maturità, finalmente adatta a raccogliere le sfide della Vita.
Signo’, state ‘nu capolavoro, ha esclamato il maturo marito della venditrice, suppongo riferendosi a quel dettaglio anatomico che non visualizzavo del tutto nello specchio ma che a suo dire offriva vita e dignità al bluejeans.
La Moda è il male, questo l’ho già scritto, e questo mondo è destinato a perire, lo sappiamo.
Chissà se alla scomparsa delle cose rimarranno i nomi, le categorie molteplici con cui abbiamo tentato di dare ragione a tutti, di soddisfare i loro bisogni, chissà.
I bluejeans hanno ormai più nomi dei novantanove nomi di Allah, sembrano onorare e rispettare la nostra diversità, riconoscere a ognuno di noi la sua precisa unicità. Non ho nemmeno guardato le taglie, mi sono affidata a quanto il corpo sentiva. La cenestesica della comodità.
Mi affido anche io ai nomi di Allah e me ne servirò per chiamare i miei due bluejeans: Al-Rahman, Il Misericordioso, per quello che non si deve accorciare e Al-Mubdi’, Colui che palesa, per quello che si azzecca sul popò.
Li metterò nell’armadio e mi profonderò in alcune adorazioni. Nel Corano o qualche testo di preghiere islamiche ci deve essere qualcosa che risuona tipo: E’ solo perché mi adorassero, che ho creato i jinn e gli uomini.
I jinn sono i demoni. Ma forse voleva dire pure lui blujeans. Anzi, blujinn.