Archive for the ‘bloglovers stories’ Category

Tutto il mondo è pa(l)ese. La gente mormora, anche su Facebook.

gennaio 28, 2009

(Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Ah, rinnega tuo padre!…Ricusa il tuo casato!…

Il tuo nome soltanto m’è nemico; ma tu saresti tu, sempre Romeo per me, quand’anche non fossi un Montecchi. Che è infatti Montecchi?…Non è una mano, né un piede, né un braccio, né una faccia, né nessun’altra parte che possa dirsi appartenere a un uomo. Ah, perché tu non porti un altro nome! Ma poi, che cos’è un nome?…Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome? Così s’anche Romeo non si dovesse più chiamar Romeo,chi può dire che non conserverebbe la cara perfezione ch’è la sua? Rinuncia dunque, Romeo, al tuo nome, che non è parte della tua persona, e in cambio prenditi tutta la mia.)

 

Mamma, ha detto mia figlia tornando a casa, ma tu stai su féshbuc?

Sì, ci sto.

Ci sta pure il fratello di Stefania e pure la sorella di Gambardella. Ci posso stare pure io?

No, si’ piccerella. Ci vogliono tredici anni.

Perché? Se no mi scrivono i maiali?

Sì.

Poi siamo andate all’Ikea, che dovevamo comprare le mensole mammut verdi, e mentre mangiavamo il salmone con l’aneto, è passato un signor Pinco, che non vedevo da un tot di anni e che però recentemente avevo ritrovato su FB.

Il signor Pinco stava con moglie e figlia piccolissima.

Ciao, ciao. Bacetto, bacetto. Che si dice?, Che si dice?

Il signor Pinco mi dice: senti, andiamo di fretta, ci vediamo su Facebook.

La novenne lo lascia allontanarsi e dice: mamma, questo è scemo.

Poi ci pensa un poco e aggiunge: ed è pure maleducato. E argomenta correttamente entrambe le proposizioni, come è nel suo stile.

E questo è il primo fatto di Féshbuc, che già lo sapevamo.

Il secondo fatto è che io adesso esco per la strada e incontro gente che in tutta la sua vita non mi aveva mai pensato o degnato di attenzione alcuna, né a scuola, né all’oratorio, né in milonga e nemmeno nel condominio di mammà o alla riunione di coordinamento regionale e che oggi si avvicina e dice: ma tu sei troppo, troppo simpatica. O anche: non sapevo niente, di com’eri.

E io faccio una faccia da ebete, assai perplessa. Una faccia che dice un sacco di cose, per esempio: e nientedimeno tu mo’ te ne sei accorta?

Oppure: ma tu sei sicuro?

Oppure: ma se per tutta la vita sei andato dicendo che ero una troppo pesante e senza senso dell’umorismo!

Oppure: embè?

Allora ho approfondito un poco questo fatto della simpatia, e ho scoperto la questione, che vengo testé a riassumervi, assai stringatamente perché invero ci sarebbero un sacco di cose da dire.

Ho studiato gli utenti di facebook ed essi sono da ascrivere a due grandi tipologie: quelli che in rete c’erano già e quelli che non c’erano.

Quelli che in rete c’erano già, c’erano con un nick, un avatar e una lunga storia relazionale costruita giorno dopo giorno tra le pareti scorrevoli del virtuale, con incursioni nel reale e continue ricomposizioni e smembramenti. L’utente che già c’era in rete, e che ha compiuto il suo percorso di costruzione e ricostruzione della sua identità narrativa, un giorno ha ricucito lo spazio tra nick e name e si è presentato al mondo dicendo: eccomi, sto qua. Sono io.

Gli altri lo sapevano già, ma bisognava fare finta di niente. Facebook è il luogo in cui l’utente che era già in rete esce ufficialmente allo scoperto, senza che questo alteri o modifichi nulla. Egli arriva lì, dopo che si è fatto da solo, ma si è fatto in mezzo agli altri.

L’utente che già era in rete, nel corso degli anni ha compiuto un’operazione di svelamento/rivelamento, tanto a sé quanto al mondo. Ha avuto necessità di nascondersi e presentarsi al mondo come anima e poi ri-definire una corporeità da aggregare intorno a questi contenuti. In un discorso completamente speculare rispetto a quanto avveniva nel mondo da cui proveniva, in cui doveva invece servirsi della corporeità per veicolare i propri contenuti.

Una volta che l’ha fatto, sta a posto.

L’utente neofita, per converso, è come un ragazzino cui abbiano messo in mano contemporaneamente: un superalcolico, un sigaro avana, una svedese di diciott’anni, la casa vuota e il suo cibo preferito. Con in più l’aggiunta dei vicini di casa che ogni tot vengono a controllare che non stia succedendo nulla di irreparabile che poi riferiscono a mamma e papà.

Insomma, la questione nodale è quella della reputazione.

L’utente che già c’era la lega al nick e del nome se ne fotte, l’utente appena arrivato la lega al nome e a ciò che socialmente tutto questo comporta.

Io in questi anni sono diventata molto più Flounder che Brunella.

No, non è esatto.

Diciamo che ho ri/costruito un universo che da virtuale è diventato sempre più reale e ha fatto sì che le persone conosciute in rete e frequentate poi nel quotidiano mi abbiano conosciuto in modo più completo, più tondo, avendo di me sia la frequentazione ordinaria che la conoscenza del momento creativo, a differenza di altri che hanno conosciuto solo la mamma, l’impiegata, la compagna di classe, la sorella dell’amica.

In definitiva sono più seria pensandomi Flounder. Sono più sfaccettata e anche più integrata.

Su Facebook non ho reputazione in questo senso,  e il fatto di spendere il mio nome e cognome senza alcun ritegno rispetto alle scemità che scrivo o ai modi ipersalottieri che mi contraddistinguono in questa parte di rete qua o in ambiti privati non accessibili a tutti, lascia perplessi. Si accorgono che non sono più Brunella. Sono una Flounder sotto le spoglie di una Brunella. Che non è cosa da poco, come voi ben sapete.

Hai coraggio, m’ha detto un vecchio amico giorni fa. Un amico che prima di Facebook non esisteva in termini di pixel e byte.

A far che?

A esporti così.

Ho capito che ci stavamo affacciando da due finestre diverse. Sotto la sua c’era uno strapiombo.

Sotto la mia, la Rete.

Bottana industriale? No, digitale.

gennaio 15, 2009

– Secondo te se vado a letto contemporaneamente con uno dei miei commentatori, con un blogger di un’altra piattaforma, con un contatto di Facebook, con un utente Twitter, con un Tumblerista e il titolare di un account Flickr sono un po’ zoccola?

– Se l’IP è lo stesso, no.

Fatti non foste a viver come bloggher

marzo 17, 2008

Che ci fosse qualcosa che non andava, era evidente. Io ho scritto di un virus, l’altro giorno, e mica scherzavo. E’ qualcosa di contagioso.

Il mio blog per esempio si è ammalato nel pieno dell’estate, e nonostante le trasfusioni, le vitamine, i tentativi di rianimarlo, non è mai stato più bene come prima. Ci ho ballato dentro, sopra, sotto, intorno, ma è stato del tutto inutile. Si è dissociato da me, passa le sue giornate rincantucciato su un divano e non gli va di uscire. Non gli va di venire con me a vedere cosa accade fuori. Non si affaccia nemmeno più dalla finestra.

L’amico Fuoridadenti pure è astenico da mesi, frequenta scritture infantili per recuperare vigore e giovinezza. Di tanto in tanto si risveglia e parla di morte. Poi cala di nuovo in letargo.

Il fratello Aitan mi si è depresso nelle profondità invernali, con una scrittura sempre più smagrita. Si siedono a tavola, lui e il suo blog, e mangiano riso in bianco e petto di pollo arrosto. Così, di malavoglia.

Alcuni hanno chiuso e riaperto altrove, rifacendosi una verginità o un tumblr.

Nei dintorni di 8 e 49 si respira un’aria di controllata trascuratezza con picchi di regressione infantile. Dev’essere il destino dei numeri, era accaduto lo stesso anche a Quarantuno, che non è mai più tornato.

Ma che anche Herzog chiuda bottega è inaccettabile, è come quando ha chiuso Gutteridge a via Toledo, uno storico negozio di abbigliamento, enorme, che importava cachemire e tweed da sempre. Al suo posto una miseranda catena di vestiti fetenti made in qualchecosa, tutta copertura e riciclaggio.

La cosa più triste è che quando un blog sparisce non è che ci cambi poi molto la vita. Ci si abitua alla perdita di genitori e figli, figuriamoci a quella di un blog.

L’altra cosa triste è il giorno in cui mi sono accorta che a dispetto di quanto credessi, per qualcuno io ero solo un blog, nonostante avessi una sostanza fisica, un luogo, un nome, un viso, una somma di sentimento che non era puramente letteraria.  Credo che il mio blog si sia ammalato quel giorno lì.

La cosa bella è che quando alcuni blog scompaiono, ti restano le persone. Quelle non le devi linkare, non le devi commentare, non le devi mettere tra i preferiti.

Ti limiti a farci cose banali, di pura quotidianità. Come una notte in autostrada e un cornetto alle prime luci dell’alba, come una telefonata che ti riferisce il benessere di un amico comune, come la cura delle piccole cose per chi in un modo o in un altro sta male.

Non credo in un paradiso o in un inferno ultraterreni. Penso che ci si reincarni continuamente, penso che il paradiso e l’inferno non siano altro che qui, sulla terra, come prezzo delle nostre scelte o mancate scelte. E so per certo che non vorrei mai, mai, morire a un blog e reincarnarmi in un twitter.

A Christmas Carol. Versione 2.0

dicembre 21, 2007

Pensate alle gioie presenti,

non alle disgrazie passate.

Riempite di nuovo il bicchiere

con volto radioso e cuore pago.

Mi ci gioco la testa che il vostro

sarà un lieto Natale e un anno nuovo felice!

Charles Dickens

Anche quell’anno Ebenezer Scrooge attese l’arrivo del Natale con ansia e fastidio. La ressa nei centri commerciali – che peraltro lui non frequentava – lo innervosiva solo all’idea.

In azienda era stato un viavai di risatine, di sguardi scambiati di sottecchi, finché nel pomeriggio della vigilia le due segretarie dalle forme abbondanti gli si erano presentate, seguite dallo stuolo dell’intero personale, con un dono impacchettato in carta rossa e tanto di fiocco.

Fuoriiii, fuori di qui, aveva tuonato Ebenezer, assestando un cazzotto sulla scrivania tanto da far tremare il monitor e tutti gli oggetti.

Il personale si allontanò, rabbuiato e offeso.

Più tardi, chiudendo la porta principale dell’ufficio ed entrando in ascensore, Ebenezer ebbe un sussulto: lì, nello specchio, il suo socio Marley, morto anni addietro, lo guardava e sembrava volesse parlargli.

Ebenezer, gli disse con una voce sepolcrale, ancora davanti al tuo blog, anche la sera del Santo Natale?

Uff, Marley, sai benissimo che non sono faccende che ti riguardano.

Lo so, caro Ebenezer, ma vorrei ricordarti che è un giorno di festa, potrebbe forse essere l’ultimo della tua vita. E vorrei che lo trascorressi con chi ami.

Sai benissimo che questo mi è impossibile, Marley carissimo, essendo l’amore solo una pratica letteraria e virtuale.

Oh, no, aggiunse allora Marley, so solo che tu vuoi che non sia possibile. Ma la notte è lunga, vedrai, ti manderò della visite.

E così dicendo sparì, mentre Scrooge arrivava con l’ascensore in garage.

Dopo poco una figura bambina gli si avvicinò, al semaforo. Sembrava uno di quei ragazzini che vogliono rifilarti rose o fazzolettini. Poco mancò che Scrooge lo arrotasse.

Ehi, fermati, gridò il bambino, aggrappandosi al finestrino semiaperto senza alcuna intenzione di mollarlo.

Lasciami, moccioso, che ho fretta.

Ma il bambino non dava segni di volerlo abbandonare.

Chi sei, chiese allora Scrooge?

Sono il fantasma dei Natali passati, rispose il bambino. Voglio mostrarti qualcosa.

E di fronte a loro si aprì un panorama illuminato in cui Scrooge rivide se stesso da piccolo. Non esistevano i cellullari, non c’era il computer. C’era una festa intorno a una grande tavola dove tutti sorridevano, un senso di calore, chiacchiere, abbracci.

Ebenezer sentì montare le lacrime agli occhi, allungò la mano per toccare chi aveva amato, ma in quel preciso istante scomparvero sia la scena che il bimbo e si ritrovò al semaforo, nel baccano di chi frettolosamente si dirigeva ad acquistare gli ultimi regali.

Pfui – pensò tra sé con disgusto. C’è gente che ancora si perde dietro queste sciocchezze. Io ho lasciato gli auguri a tutti nel blog, mandato una mail collettiva. Basta e avanza.

Entrando in casa, la prima cosa che fece fu accendere il portatile, senza nemmeno togliersi il pastrano. L’appartamento era freddo e spento, da quando sua moglie lo aveva lasciato, dopo averlo scoperto una notte in una chat erotica con NastassiaLaPorcona, e si era portata via i bambini per andare a vivere con un camperista appassionato e rubicondo.

Nessuna mail, nessun commento, il frigo vuoto.

Scrooge si assopì sul divano e dopo poco gli venne in sogno un giovane dall’aria rabbuiata.

E tu chi sei?

Sono il fantasma dei Natali presenti. Voglio mostrarti qualcosa.

Uff, anche tu, adesso? borbottò Scrooge.

Il giovane lo prese per mano e lo condusse davanti al monitor.

Guarda qui, gli disse.

Scrooge guardò: era il suo blog, era la sua casella di posta elettronica. Non c’erano tracce di passaggi umani, né saluti, né faccine.

Apparve una scena davanti ai loro occhi: erano le case dei bloggher e delle bloggheresse che normalmente leggeva. Dovunque alberi di Natale e sfogliatelle e capponi e cappelletti e datteri e spigole all’acqua pazza e baci e abbracci e sorrisi e mani, sfioramenti, contatti.

Lì c’era RanaPazza ad abbracciare i suoi bambini, più in là NienteeNessuno davanti al camino con la fidanzata, in un’altra scena ancora Ornitorinco che abbracciava gli anziani genitori e pizzicava il sedere alla moglie. Ancora più in là StellaPolare festeggiava con un gruppo di amici che cantavano una salace canzone irlandese e ballavano la giga.

Non mi importa, gridò Scrooge allontanando il giovane. Io sono fighissimo, ho trecentomila accessi e non ho bisogno d’altro.

Per strada i rumori diminuivano, ovunque erano in corso cenoni. Ebenezer mandò una settantina di sms piacioni, ma nessuno gli rispose.

Negando a se stesso di essere furioso uscì di casa e si incamminò a passo svelto senza neppure sapere dove andare. Nella fretta non si accorse di inciampare su un vecchietto malmesso, sporco, maleodorante.

Ehi, ragazzo, fermati, disse il vecchio. Pulendosi intanto il naso con un fazzoletto lurido.

Lasciami, vecchio, lasciami.

Ma il vecchio gli tese lo sgambetto e lo fece cadere.

Che cazzo fai?, gridò Scrooge. Ma chi sei? Che vuoi da me?

Sono il fantasma dei Natali futuri, disse il vecchio. Seguimi. E caricatolo sulle spalle, forti nonostante l’apparenza, spiccò il volo.

Attraversarono piattaforme desolate, grigi template, pvt silenziosi. Dovunque chiedevano: conoscete Scrooge?

Scrooge? Chi è?

Una volta era un blogghèr famosissimo, aveva trecentonovantaseimila accessi, partecipava a tutte le iniziative on-line, era virtualmente fidanzato con sedici bloggheresse e di tanto in tanto a qualcuna toccava anche le tette.

Ma niente. Tutto taceva.

Finché arrivarono al suo blog.

C’era un ultimo post, tragico, datato 28 dicembre 2009.

Ma ciò che era più tragico, è che non avesse commenti. Nemmeno uno.

Si fermarono anche nella sua casella di posta scrooge[at]fighissimo.it: c’era solo spam.

Scrooge iniziò a piangere e si aggrappò al vecchio.

C’è qualcosa che posso ancora fare?, gli chiese tra i singhiozzi.

Sai giocare almeno a squash?, gli chiese il vecchio.

No, rispose Ebenezer.

E allora fottiti, disse il vecchio.

Poi scomparve nella notte, mentre Ebenezer si infilava in un internet point gestito da nigeriani per pigiare il tasto delete e cercare su google l’indirizzo di un centro sportivo in cui praticare squash.


Edizione straordinaria: Babbo Natale esiste. Ed è napoletano.

La difficoltà  dei matrimoni misti

novembre 5, 2007

Ebbene,  cari   blogghèr and  bloggheresses,  è tanto tempo   che  qui,  in questo rispettabile blog, non si parla di storie d’amore virtuale.

La ragione è presto detta: oltre a non aversi tempo a causa dell’emergenza improvvisa del reale, qui si soffriva, ci si dilaniava, si piangeva, ci si tormentava, si mangiava per dimenticare, si beveva per ricordare, si ballava per fare un po’ e un po’, si ripercorrevano le tappe di un amore precipitato come una perturbazione in arrivo dalle Azzorre, si interpretavano significati reconditi, si assisteva pietrificate al susseguirsi degli eventi, alle molteplici contraddizioni, si ascoltavano e si leggevano parole che annunciavano, preannunciavano, si contorcevano e si smentivano con triplo salto carpiato.

Insomma, per farla breve, si assisteva impotenti e dolenti alla disfatta di Cupido.

Poi però a tutto c’è un limite e allora a un certo punto bisogna anche ricominciare a guardare il resto del mondo e a riferirne, invece di stare concentrati sul proprio ombelico dal quale spuntano se, ma e forse come un gioco di colombe dal cappello di un prestigiatore autolesionista.

Così oggi vi si racconta una storia che alcuni giorni fa ho promesso a un’amica. E’ la storia di un blogghèr che si era innamorato.

E qui lo so che voi vi aspettate la solita storia trita e ritrita del blogghèr che si era innamorato della bloggheressa di turno e la seduceva, la concupiva, la circuiva e ne veniva sedotto, concupito e circuito, in un tourbillon di post e commenti.

E invece no.

Perché questo blogghèr qua si era innamorato nientepopodimeno che di un’utentessa Flickr.

Inutile che vi preannunci che si trattava – come sempre – di un amore difficile. Più difficile di altri.

Un amore tra diversamente abili.

Il blogghèr scriveva scriveva scriveva.

L’utentessa Flickr fotografava fotografava fotografava.

Una storia romantica, molto simile all’amore tra Borges e Maria Kodama: lui narrava e lei catturava con lo sguardo le immagini del mondo; lui postava e lei rispondeva con grandangoli e messe a fuoco.

Il blogghèr si appoggiava alla flickeressa come ad un bastone, ad un puntello capace di guidarlo tra gli angoli del reale senza mai farlo inciampare o cadere.

La flickeressa si adagiava sulle parole del blogghèr come un’amaca fatta della stessa trama trasparente e solida di certi sogni ricorrenti.

Si sarebbe potuto dire che fossero felici, che le loro diversità si compendiassero rendendoli un essere unico e completo, che i loro linguaggi potessero intessere un dialogo multiforme e variegato.

Ma come ben sapete, la vita è sempre ingrata e ingiusta verso chi si ama in spregio delle convenzioni e dei luoghi comuni.

Gli amici del bloggher iniziarono fastidiosissime critiche, lo ammonivano sulle difficoltà di una simile relazione. Lei gliel’avrebbe fatta sotto gli occhi, sostenevano alludendo alla sua cecità e alla di lei abilità nell’individuazione dei punti di fuga.

Le amiche della flickeressa, dal canto loro, non perdevano l’occasione di sottolineare la monodimensionalità del blogghèr, la sua incapacità a leggere tra i non detti di un pixel e i suoi tentativi di manipolare il reale con circonlocuzioni tanto affabulatorie quanto monocromatiche.

Fu un amore difficile, sì. Un amore che si infranse sulla realtà del suo negativo.

Un amore che ebbe ostacoli e detrattori, un amore che pur avendo dalla parte di lei un grande obiettivo non riuscì mai a spingersi oltre l’infinito.

Né fu sufficiente la conoscenza della fisica nella camera oscura:  la breve lunghezza focale di lui e i tempi di esposizione talvolta ridotti fino a 1/30 di secondo, certo non giocarono a favore.

Si lasciarono in un piovoso giorno d’autunno, senza nemmeno una parola o uno scatto d’ira.

In lontananza il mare ululava e biancheggiava, per accontentare un poco tutti e due.

No comment

aprile 12, 2007

Voi lo  sapete ormai,  cari e affezionati e smaliziati lettori, che c’era sempre – da qualche parte nella blogosfera – una bloggheressa che si era innamorata di un blogghèr.

E lo seguiva passo passo non solo nel suo blog, ma anche nella scheda personale, per andare a verificare dove e quando commentasse, cosa scrivesse e a chi.

Faceva l’analisi esegetica dei commenti, dei bioritmi elettronici.

Lo seguiva e non si dava pace.

Più lo seguiva e meno capiva.

E si chiedeva: ma perché mai va a commentare solo in quei tali posti e non nei talaltri? E perché non da me?

Ma che ci avranno queste bloggheresse qua da suscitare i suoi interventi?

E si struggeva e si interrogava.

E addobbava il suo blog con roselline e festoni, con un frigo bar e un’amaca.

Ma niente, il blogghèr lasciava altrove il suo prezioso verbo, la parola creatrice e ammaliatrice.

Allora la bloggheressa – si sa come sono le donne quando amano o credono di amare, si fanno perfide e spietate – cominciò a mettere in giro delle voci per screditare le rivali: diceva che queste qua tenevano un blog a ore, a pagamento, che scrivevano scrivevano e poi si facevano pagare per ogni post.

Insomma mise su una spirale di violenza e rancore, di maldicenza e livore.

Entrava in questi blog incriminati carica di commenti anonimi: tu, tu, puttana letteraria, molla l’osso ed il commento.

Oppure: meretrice in stile arial e corpo 11, confessa, che hai le O col silicone.

E ancora: vile marrana, la carta di credito non basta, il vero amore non si ottiene col commento all’asta.

Altre volte non scriveva niente, si appostava dietro la finestrella dei commenti e piangeva solitaria, triste da morire, triste come solo una bloggheressa può essere quando il blogghèr di cui è innamorata non ricambia il suo ardore.

Passarono giorni, settimane, mesi.

Poi un giorno finalmente la bloggheressa si innamorò di uno in carne ed ossa e smise di pensare al blogghèr. Cioè, ci pensava ogni tanto, ma non troppo tanto.

E poi un giorno, in una conversazione leggera, lui le raccontò che una volta aveva un blog e un nick. Lei trasalì, al cospetto del blogghèr di cui un tempo era stata innamorata.

La relazione – benché ormai prossima al grande passo – si interruppe bruscamente.

Alle famiglie affrante che chiedevano come e perché, l’ex-bloggheressa ed ex-futura sposa solo rispose: no commènt.

Changez la femme

febbraio 16, 2007

Oggi vi  devo raccontare la  storia di un blogghèr che si era innamorato di una commentatrice.

Sono cose che ogni tanto capitano e dunque mi tocca riferirvi.

La cosa cominciò nella finestrella commenti, nella migliore tradizione di tutte le storie d’amore ai tempi della blogosfera. E commenta oggi, commenta domani, prima o poi i due presero contatti in separata sede.

Epistolari, perché erano tipi antichi e all’antica.

In realtà le cose non erano semplici come appare al primo sguardo, giacché nonostante i toni briosi usati pubblicamente, in privato il blogghèr cominciò a raccontare alla commentatrice della sua infelicità coniugale.

Copione banale, direte voi.

E qui mi tocca smentirvi, giacché la commentatrice in questione era nientepopodimeno che la sua signora, sotto mentite spoglie. Che stava lì con il preciso intento di vedere il fedifrago dove volesse andare a parare.

Per assecondarlo cominciò anche lei a raccontargli del suo ménage, che faceva acqua da tutte le parti.

Insomma, sfogati oggi e sfogati domani, i due giunsero alla conclusione che le reciproche infelicità si erano fatte insopportabili ed era dunque maturato il tempo di incontrarsi per valutare se due infelicità si annullino, come le negazioni,  o diano vita a una terza infelicità, eventualmente condita da rapidi ed effimeri bagliori che almeno per poco la trasfigurino.

E dove ci vediamo? E dove ci incontriamo?

La scelta del luogo fu situata a duecento chilometri da casa, in terra neutra.

Lui giustificò con la moglie la sua partenza improvvisa attribuendola a una riunione di lavoro.

Lei lo anticipò informandolo che per due giorni avrebbe tenuto un corso di aggiornamento fuori sede.

Facciamo un passo indietro: il blogghèr in questione non era un fedifrago.

Voglio dire: non lo era mai stato e forse non lo sarebbe mai diventato.

Gli mancava la struttura di base, la capacità organizzativa e quel pizzico di malizia necessario.

Si racconta infatti che dopo questa decisione fu costretto per due giorni a sorbire pasticche di Imodium e diverse gocce di calmanti.

Ma c’è un momento nella vita di ognuno di noi in cui la percezione della propria infelicità è talmente intensa – e forse distorta – da renderci capaci di grandi gesti, di azioni che fino a un momento prima non avremmo creduto possibili neanche nel nostro profondo immaginario.

E’ un momento fulgido in cui si crede di poter brillare come un astro, salvo poi rendersi conto che il sistema planetario se ne fotte di noi.

Giovedì mattina di un rigido giorno di febbraio, alla stazione della città di S.

Il blogghèr ha giacca, cravatta e impermeabile. Un ombrello. Controlla nervosamente il portafogli, il cellulare, la punta delle scarpe. Per ragioni dettate dall’ansia è partito con cinque ore di anticipo. Il risultato è che muore di sonno.

Quand’ecco che in lontananza vede una sagoma nota: gesù, e quella è mia moglie. E mo’ che dico? Che racconto? Che mi invento?

E tu qua che ci fai?, chiede la moglie falsamente sorpresa.

Il blogghèr crolla drammaticamente: si butta ai piedi di lei e piange, implora il suo perdono.

Dice cose come: credimi, credimi, non è mai accaduto nulla, io amo solo te. Come ho potuto credere che non fosse così? Cosa mi ha portato qui?

Le dice sinceramente, il poverino. Non è un fedifrago, l’ho detto subito. E’ il momento della rivoluzione copernicana esistenziale: la Terra non è un cazzo, è uno sputo nell’universo, un accidente cosmico. Fermi tutti, l’Etat c’est elle, pas moi.

E intanto si guarda intorno per vedere se questa  commentatrice arrivi o no e spera che non arrivi, che sia stata inghiottita da un destino avverso, che lui no, non ce la fa ad affrontare anche questa prova.

Fiat voluntas tua, sussurra sottovoce, e inghiotte un altro Imodium.

La moglie sembra comprensiva. Anche se non capisce tutto lui ha come l’impressione che intuisca e non voglia fare domande.

Andiamo a casa, su – gli dice – sospingendolo verso la stazione.

Due giorni dopo.

Il blogghèr e la commentatrice riprendono contatti.

Ma tu dov’eri?

E tu?

Io ho avuto un contrattempo e non ho potuto avvisarti.

Meno male, anche io. Pensavo mi avessi aspettato per ore.

Tua moglie ha sospettato qualcosa?

No. E lui?

No, no, è un coglione, non si accorgerebbe di nulla. Quando pensi che  potremo ricombinare?

Lui tituba. Vorrebbe dire domani, dopodomani, tutti i giorni. Ma non è un fedifrago, no, lo abbiamo già detto. E poi pensa al marito coglione e un po’ gli dispiace. Lui non vorrebbe mai che sua moglie parlasse di lui così. Non adesso, in ogni modo.

Più in là, risponde con elegante e vile vaghezza.

Sei come tutti gli altri, gli scrive lei stizzita. Dall’altro capo del monitor lui può intuire il picchiettare arrabbiato e deluso sui tasti.

E’ l’ultimo contatto che hanno. Poi il buio rassegnato

Due mesi dopo lo sorprende una raccomandata. Studio legale Antonucci: richiesta di separazione consensuale.

Perché?, chiede incredulo alla moglie. Perché proprio adesso?

Lei gli vorrebbe dire: perché non hai i coglioni, ma non sarebbe proprio esatto, no. Conterrebbe una notevole quota di imperfezione.

Opta per: perché sei un coglione.

Contestualmente ricompare la commentatrice, per una comunicazione rapida e concisa:  con suo marito adesso le cose vanno bene. Sono felici come mai prima.

Beata te, pensa lui. Con un sottile, struggente, coglionissimo rimpianto.

Sex and Web

novembre 13, 2006

E’ un sacco di tempo che non  vi  racconto di  un qualsivoglia blogghèr che si era innamorato di una qualsivoglia bloggheressa. Ma non ho molto tempo. Sicché, un estratto:

(…) lo abbracciò, guardandolo intensamente negli occhi.

Più tardi, nel culmine dell’estasi, gli avrebbe sussurrato con dolcezza e affanno il suo IP, cifra dopo cifra (…)

Un link è per sempre

marzo 1, 2006

C’era una bloggheressa che si era innamorata di un blogghèr.

E fin qua niente di strano, direte voi.

Niente di strano, vi confermerò io.

Solo che questa bloggheressa qua era gelosissima e non sopportava che il blogghèr suo andasse a commentare nei blog delle altre bloggheresse.

E fin qua ancora niente di strano, direte nuovamente voi.

Ancora niente di strano, vi riconfermerò io.

Allora la bloggheressa in questione decise di aprire un altro blog segreto e cominciò a corteggiare il blogghèr suo, per vedere se lui ci cascava.

E qua voi ammetterete che le cose cominciano a prendere una brutta piega.

E io non posso che essere d’accordo con voi.

Ma questo blogghèr qua era uno molto serio, e soprattutto era innamorato della bloggheressa sua, sicché a questa nuova non dava nemmeno un poco di confidenza.

Immagino che voi condividiate e apprezziate questo atteggiamento.

Ed effettivamente io non posso darvi torto.

Senonché il blogghèr suo, in un giorno che erano particolarmente intimi, le aveva confidato che c’era una rompipalle che gli faceva il filo e lo tampinava. La bloggheressa aveva finto di insospettirsi per approfondire la faccenda e il blogghèr le aveva raccontato che era noiosa, ma così noiosa da non sopportarsi.

Una certa dose di imprudenza, sosterrete voi.

E io non credo di potervi contraddire.

La bloggheressa, inviperita da simili affermazioni, allora aveva scritto al blogghèr in termini durissimi, dicendogli che in fondo lui non l’aveva mai amata. Il blogghèr ci era rimasto di sasso, senza nemmeno capire i perché e i per come.

Una conclusione inevitabile, affermerete voi.

Ebbene sì, non c’era rimedio.

Provati dalla triste esperienza cambiarono nick e blog. Si rincontrarono casualmente, come due perfetti sconosciuti, tacendo delle passate esperienze.

Si innamorarono di nuovo, dopo sei mesi si sposarono e adesso vivono in una fattoria, con i loro tre bambini, lontani dalla tecnologia.

Questa è una balla, starete pensando voi.

Ma se siete cinici non è  certo colpa mia.

Ma in fondo è solo un blog, che c’è di male?

gennaio 9, 2006

Non passa giorno che non cerchi di distrarsi dal pensiero di lui.

Ci prova con il lavoro, con gli impegni,  le riunioni di condominio,  il mutuo da pagare, con le rate dell’impianto di condizionamento d’aria, l’abbonamento a tre settimanali e un quotidiano, i compleanni ai quali è invitata a partecipare, i vernissage che deve recensire, il cinema d’essai, mezz’ora di jogging al mattino, quindici gocce di Tifacciobendormir alla sera, la pace coniugale, con l’amore in comoda e pratica confezione in fiale si conservano in frigorifero per massimo ventiquattr’ore dopo l’apertura, con l’acquarello i giorni pari e la lettura di libri gialli in quelli dispari.

Ma non passa giorno, no.

Lo segue, lo cerca, lo legge.

E che sarà mai un blog?, dice a se stessa.

Così non ha da rimproverarsi nulla.

Un blog è un blog: sono solo parole, nulla di più etereo, niente di più fittizio. Sarò mica da perseguire? Mica da condannare?

Così ne legge tre o quattro, e la coscienza le si rimette in pace.

Non lo legge nemmeno per primo.

Finge a se stessa di passarci di sfuggita, per puro caso.

Ma invece  è mal d’amore.

E’ perversione, purissima perversione.

Come altro chiamare questo brivido?

Come altro chiamare la delusione quando in ventiquattr’ore lui non scrive niente di nuovo?

Come altro chiamare l’ansia che le prende allo stomaco quando per una settimana lui scompare?

Risucchiato dalla sua vita vera, forse.

Da un gorgo di palpabilissimo reale.

Da qualcuno che lo sappia amare, che lo fa ridere fino a tremare.

E al di qua dello schermo gli impegni, le riunioni condominiali, il mutuo da pagare, le rate del condizionatore, l’abbonamento a tre settimanali e un quotidiano, i compleanni e i vernissage ai quali è invitata a partecipare, il cinema d’essai, mezz’ora di jogging al mattino, quindici gocce di Tifacciobendormir™ alla sera,  la pace coniugale, l’amore in comoda e pratica confezione in fiale si conservano in frigorifero per massimo ventiquattr’ore dopo l’apertura,  l’acquarello i giorni pari e la lettura di libri gialli in quelli dispari.

Ma non passa giorno, no, non passa.

Vorrà pur dire qualcosa.

Ci si dovrebbe riflettere. Almeno un poco, cinque minuti.

In cinque minuti se non si arriva a niente di nuovo ci si può almeno convincere che un blog è solo un blog, parola nuda, passaggio casuale, nulla di più fittizio.

Si fa di nuovo pace con la coscienza e si tira un altro poco a campare.

 

(Cancellare dal vocabolario la parola osare. Fra qualche tempo anche immaginare. Entro fine anno eliminare due o tre refusi apparentemente accidentali.

E’ quanto è scritto sul retro di un bigliettino da visita, nel portafogli, secondo taschino lato destro, tra il bancomat e le tessera sanitaria. E’ il bigliettino di un dottore, pare faccia miracoli per la vista e il cuore, meglio andarci su appuntamento, un mio amico ci si è trovato contento, lo consiglia. Male non fa, al massimo ci si convince che un blog è solo un blog, nulla di più carnale.

Ha detto carnale? Questo è freudiano.

Mi scusi, pensavo a un arrosto di maiale, nulla di più. Glielo giuro.

Va bene, allora. Ritorni venerdì e oggi che è martedì, rimpiazzi l’acquerello con il ballo. Se non dovesse guarire e si riscopre lì a rimuginare e sognare, stia tranquilla: la manderò da un collega. E’ un  luminare, pensi che un suo paziente ormai guarito non sa più coniugare il verbo amare.

E adesso vive meglio?

Molto meglio.

Quanto meglio?

Un po’, se non mi sbaglio)