(Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Ah, rinnega tuo padre!…Ricusa il tuo casato!…
Il tuo nome soltanto m’è nemico; ma tu saresti tu, sempre Romeo per me, quand’anche non fossi un Montecchi. Che è infatti Montecchi?…Non è una mano, né un piede, né un braccio, né una faccia, né nessun’altra parte che possa dirsi appartenere a un uomo. Ah, perché tu non porti un altro nome! Ma poi, che cos’è un nome?…Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome? Così s’anche Romeo non si dovesse più chiamar Romeo,chi può dire che non conserverebbe la cara perfezione ch’è la sua? Rinuncia dunque, Romeo, al tuo nome, che non è parte della tua persona, e in cambio prenditi tutta la mia.)
Mamma, ha detto mia figlia tornando a casa, ma tu stai su féshbuc?
Sì, ci sto.
Ci sta pure il fratello di Stefania e pure la sorella di Gambardella. Ci posso stare pure io?
No, si’ piccerella. Ci vogliono tredici anni.
Perché? Se no mi scrivono i maiali?
Sì.
Poi siamo andate all’Ikea, che dovevamo comprare le mensole mammut verdi, e mentre mangiavamo il salmone con l’aneto, è passato un signor Pinco, che non vedevo da un tot di anni e che però recentemente avevo ritrovato su FB.
Il signor Pinco stava con moglie e figlia piccolissima.
Ciao, ciao. Bacetto, bacetto. Che si dice?, Che si dice?
Il signor Pinco mi dice: senti, andiamo di fretta, ci vediamo su Facebook.
La novenne lo lascia allontanarsi e dice: mamma, questo è scemo.
Poi ci pensa un poco e aggiunge: ed è pure maleducato. E argomenta correttamente entrambe le proposizioni, come è nel suo stile.
E questo è il primo fatto di Féshbuc, che già lo sapevamo.
Il secondo fatto è che io adesso esco per la strada e incontro gente che in tutta la sua vita non mi aveva mai pensato o degnato di attenzione alcuna, né a scuola, né all’oratorio, né in milonga e nemmeno nel condominio di mammà o alla riunione di coordinamento regionale e che oggi si avvicina e dice: ma tu sei troppo, troppo simpatica. O anche: non sapevo niente, di com’eri.
E io faccio una faccia da ebete, assai perplessa. Una faccia che dice un sacco di cose, per esempio: e nientedimeno tu mo’ te ne sei accorta?
Oppure: ma tu sei sicuro?
Oppure: ma se per tutta la vita sei andato dicendo che ero una troppo pesante e senza senso dell’umorismo!
Oppure: embè?
Allora ho approfondito un poco questo fatto della simpatia, e ho scoperto la questione, che vengo testé a riassumervi, assai stringatamente perché invero ci sarebbero un sacco di cose da dire.
Ho studiato gli utenti di facebook ed essi sono da ascrivere a due grandi tipologie: quelli che in rete c’erano già e quelli che non c’erano.
Quelli che in rete c’erano già, c’erano con un nick, un avatar e una lunga storia relazionale costruita giorno dopo giorno tra le pareti scorrevoli del virtuale, con incursioni nel reale e continue ricomposizioni e smembramenti. L’utente che già c’era in rete, e che ha compiuto il suo percorso di costruzione e ricostruzione della sua identità narrativa, un giorno ha ricucito lo spazio tra nick e name e si è presentato al mondo dicendo: eccomi, sto qua. Sono io.
Gli altri lo sapevano già, ma bisognava fare finta di niente. Facebook è il luogo in cui l’utente che era già in rete esce ufficialmente allo scoperto, senza che questo alteri o modifichi nulla. Egli arriva lì, dopo che si è fatto da solo, ma si è fatto in mezzo agli altri.
L’utente che già era in rete, nel corso degli anni ha compiuto un’operazione di svelamento/rivelamento, tanto a sé quanto al mondo. Ha avuto necessità di nascondersi e presentarsi al mondo come anima e poi ri-definire una corporeità da aggregare intorno a questi contenuti. In un discorso completamente speculare rispetto a quanto avveniva nel mondo da cui proveniva, in cui doveva invece servirsi della corporeità per veicolare i propri contenuti.
Una volta che l’ha fatto, sta a posto.
L’utente neofita, per converso, è come un ragazzino cui abbiano messo in mano contemporaneamente: un superalcolico, un sigaro avana, una svedese di diciott’anni, la casa vuota e il suo cibo preferito. Con in più l’aggiunta dei vicini di casa che ogni tot vengono a controllare che non stia succedendo nulla di irreparabile che poi riferiscono a mamma e papà.
Insomma, la questione nodale è quella della reputazione.
L’utente che già c’era la lega al nick e del nome se ne fotte, l’utente appena arrivato la lega al nome e a ciò che socialmente tutto questo comporta.
Io in questi anni sono diventata molto più Flounder che Brunella.
No, non è esatto.
Diciamo che ho ri/costruito un universo che da virtuale è diventato sempre più reale e ha fatto sì che le persone conosciute in rete e frequentate poi nel quotidiano mi abbiano conosciuto in modo più completo, più tondo, avendo di me sia la frequentazione ordinaria che la conoscenza del momento creativo, a differenza di altri che hanno conosciuto solo la mamma, l’impiegata, la compagna di classe, la sorella dell’amica.
In definitiva sono più seria pensandomi Flounder. Sono più sfaccettata e anche più integrata.
Su Facebook non ho reputazione in questo senso, e il fatto di spendere il mio nome e cognome senza alcun ritegno rispetto alle scemità che scrivo o ai modi ipersalottieri che mi contraddistinguono in questa parte di rete qua o in ambiti privati non accessibili a tutti, lascia perplessi. Si accorgono che non sono più Brunella. Sono una Flounder sotto le spoglie di una Brunella. Che non è cosa da poco, come voi ben sapete.
Hai coraggio, m’ha detto un vecchio amico giorni fa. Un amico che prima di Facebook non esisteva in termini di pixel e byte.
A far che?
A esporti così.
Ho capito che ci stavamo affacciando da due finestre diverse. Sotto la sua c’era uno strapiombo.
Sotto la mia, la Rete.